Sontuoso articolo di Adalberto Bortolotti su Di Stefano:
Per me, numero uno. Ma ho già spiegato che, in una graduatoria del miglior calciatore del secolo, le preferenze personale debbono piegarsi alla forza dell'immagine, alla suggestione dei simboli. E' un fatto che, prima ancora che gli olandesi inventassero e propagandassero il calcio totale, Alfredo Di Stefano aveva già imposto la figura del 'calciatore totale'.
Nase nel rione Barrajas, a Buenos Aires, figlio di emigranti italiani, il padre già discreto giocatore del River Plate. I primi passi nella squadra del 'barrio' lo impongono all'attenzione. Gli aficiondas del quartiere lo chiamano 'Millenita', che sarebbe un diminutivo di Millena, all'epoca favoloso centromediano del River. Al River entra anche il giovane Alfredo, come ala destra della quarta squadra del club, ma in pochi mesi scala tutti i gradini e si ritrova al fianco dei leggendari assi dell'epoca, Moreno, Labruna e Pedernera. Un anno all'Huracan, che offre condizioni economiche migliori, lo lancia in orbita, sicchè quando rientra, diciottenne, al River è già titolare inamovibile.
La sua velocità è impressionante, lo chiamano 'la saeta rubia', la freccia bionda. Nel 1947, ventunenne, è la sensazione della Nazionale argentina che vince a Guayaquil il campionato sudamericano. "Mai" dià in seguito "ho giocato in una squadra più forte". Nella sua versione giovanile, Di Stefano è un centravanti puro, con il gol sempre in canna. Ma per l'economia argentina sono anni terribili e il giovane Alfredo non è tipo da sacrifici.
Nel 1949 accoglie le favolose offerte del Millionarios, un club colombiano che si è posto fuori dall'ambito Fifa e pratica un professionismo esasperato, reclutando a suon di dollari i migliori calciatori del continente. Vince due titoli colombiani e in 292 partite col Millionarios realizza 259 gol. A lungo andare quel calcio clandestino immalinconisce il fuoriclasse, messo al bando dalle competizioni ufficiali. Così, nel 53, si fa tentare dalle contemporanee offerte di Barcellona e Real Madrid. Il Barça arriva primo e ha la legge dalla sua, ma nella Spagna franchista il Real ha poteri illimitati. La federazione spagnola, fra la legalità e il privilegio, ricorre a un'incredibile soluzione pilatesca: Di Stefano giocherà una stagione in club e la seguente nell'altro. Il criterio dell'alternanza indigna il Barcellona, che si ritira con parole di fuoco, dando campo libero al Real.
Ed è in quel momento che nasce la leggenda dei merengues. Non sarebbe mai stato possibile il favoloso Real Madrid degli anni Cinquanta e Sessanta senza Di Stefano. Nella continua rotazione di stelle con cui Santiago Bernabeu abbaglia Madrid, Alfredo è il perno fisso. Di quel Real si ricordano a malapena gli allenatori. E' Di Stefano il vero allenatore, in campo e fuori. Chi si adatta al suo gioco, trova soldi e gloria. Chi entra in collisione non ha scampo, anche se grandissimo. Succede a Didì, formidabile regista del Brasile campione del mondo 58 e 62, approdato a Madrid con velleità di padrone e costretto a fare presto le valigie.
Undici anni resta Di Stefano al Real, gioca 624 partite ufficiali e realizza 405 gol. Vince otto campionati e cinque Coppe dei Campioni consecutive. Non fa l'attaccante puro, porta il nove sulla maglia ma muove da posizione arretrata, dove costituisce il fulcro della manovra. Eppure, per cinque stagioni, è il capocannoniere della Liga e in Coppa Campioni firma 49 gol.
Dopo aver indossato la maglia delle nazionali argentina e colombiana, approda anche a quella spagnola, per via delle naturalizzazioni facili. Vi gioca 31 partite con 23 gol. Eppure questo fuoriclasse epocale non arriva a disputare neppure una partita di campionato del mondo, atroce oltraggio al giocatore che insidia Pelè in un'ideale classifica 'all time'. Persino superiore al rey brasiliano per completezza e sublime genio tattico.
Ai tempi d'oro hanno scritto di lui in Spagna: "Puskas tira più forte, Kopa dribbla meglio, Kocsis salta più in alto, ma nessuno può eguagliare Di Stefano, il solo campione senza punti deboli".
Irresistibile centravanti tradizionale negli anni giovanili, straordinario uomo ovunque nella maturità, regista e rifinitore, ma senza mai dimenticare il fine ultimo del calcio, il gol. Alcuni di questi suoi gol entrano di diritto nella galleria del football. Così lo stesso Di Stefano descrisse quello che egli giudica il più bello: "Nel 1948, mentre si giocavano le finali della Coppa Libertadores in Cile, litigo col River e vengo lasciato a casa. Il River perde 3-0 col Nacional di Montevideo, ci ripensa e mi richiama d'urgenza per la seconda partita. Prendo l'aereo e volo a Santiago. L'avversario è lo Strongest, campione di Bolivia. Sta per cominciare il secondo tempo e il grande Moreno mi fa: 'Te la senti di fare una volata? Mi tocchi la palla e parti a razzo verso la porta avversaria, io te la faccio arrivare al momento giusto'. Amico, era il grande Moreno. L'arbitro fischia l'inizio, io gliela tocco e filo come un siluro, passando tra i due difensori centrali. Vedo l'ombra della palla che sta arrivando sulla destra, mi sposto per non scontrarmi col 'volante' e scorgo il portiere, Araya, che comincia l'uscita. Tocco la palla che scende con l'esterno, gliela faccio sfilare al fianco, la raggiungo e la metto nella porta vuota. Sono passati otto secondi. Capito perché allora mi chiamavano la saeta rubia?"
_________________ «...ricorda che se anche i nostri dirigenti ci danno per spacciati e dicono che sarebbero contenti anche se perdessimo 4-0, a me non interessa. Io oggi scendo in campo per vincere e voglio che quelli che scendono con me oggi abbiano lo stesso obiettivo. Se vedo qualcuno che non combatte questa battaglia, alla fine della partita dovrà vedersela con me. Fatti forza Ruben, quei duecentomila là fuori non giocano, guardano solamente».
Il capitano Obdulio Varela al giovane Ruben Moran prima della finale del Mondiale 50, Brasile 1 Uruguay 2
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