Doping, il ciclismo si ribella a Torri L'Uci: "Affermazioni infamanti"
Bufera dopo le parole del n. 1
antidoping. Ma la realtà è che
inItalia indagano 10 procure,
i pentiti sono rari e i big compromessi
GUGLIELMO BUCCHERI
ROMA
Uno sfogo, forse paradossale. Così, il capo della procura antidoping del Coni, Ettore Torri, ha affrontato (ieri di prima mattina) il faccia a faccia con il numero uno del Foro Italico, Gianni Petrucci, mentre il mondo del ciclismo saliva sulle barricate come mai in passato. Il peso delle parole del pm dell’antidoping italiano ha avuto l’effetto di oltrepassare i nostri confini con la velocità della luce e, a poco, è servito a Torri ribadire come i suoi concetti («Il doping? Da legalizzare visto che si dopano tutti e noi ne fermiamo uno su 100...») non «vadano interpretati come un’apertura verso una depenalizzazione del reato», ma come, appunto, «uno sfogo, espresso in modo forse paradossale, di una persona che da anni lotta contro il problema e che continuerà questa lotta ai massimi livelli».
Nessun passo indietro, dunque. Nessun ripensamento per il ruolo svolto fino ad ora, precisa Torri. Ma, fuori dal palazzo del Coni, l’uscita dell’ex magistrato suona come una resa. Così, se il presidente della federazione ciclistica italiana, Renato Di Rocco, parla di «dichiarazioni che hanno procurato un grave danno di immagine al nostro movimento» dopo essersi definito «allibito da quanto detto da Torri», durissima è la presa di posizione dell’Unione ciclistica mondiale. E’ il portavoce Pat McQuaid a scendere in pista: «Asserire che tutti i ciclisti siano dei dopati - così McQuaid - non significa soltanto lanciare un’accusa grave, addirittura infamante e comunque priva di qualsiasi riscontro oggettivo, ma soprattutto negare l’attendibilità dei controlli e delle pratiche antidoping in vigore. In questi anni - continua il portavoce dell’Uci - la mentalità ed i comportamenti della grande maggioranza dei ciclisti hanno subito profondi mutamenti...».
Tutti sullo stesso fronte: federazione italiana e mondiale e squadre che, come la Liquigas (squadra di Ivan Basso), minacciano «di portare Torri in tribunale» e ne chiedono le dimissioni. Segnale di resa o sfogo paradossale, è, però, innegabile come la denuncia ad effetto del procuratore capo dell’antidoping trovi un suo fondamento nella lunga serie (ancora aperta) di squalifiche o sanzioni per chi il ciclismo lo pratica o l’ha vissuto a mille all’ora. Basso, Petacchi, Di Luca, Rebellin. E, ancora, Riccò, ma anche Armstrong, Valverde o Contador: campioni finiti nel tritacarne del doping o dei sospetti che proprio ieri hanno toccato anche lo spagnolo Da Pena, sospeso dall’Uci. Il ciclismo indossa la maglia nera per l’uso improprio o illegale (da noi il doping è un reato penale) di farmaci o sostanze. E se Coni e federazione ogni anno investono 5 milioni nella lotta alle pratiche illecite, è altrettanto vero che, al momento, dieci procure della Repubblica stanno spendendo risorse umane ed economiche per mettere ordine ad un vero e proprio mercato dell’illegalità. Sul campo si contano quasi un migliaio di uomini delle forze dell’ordine per smascherare gli intrecci perversi fra gli atleti e chi le sostanze le procura o le smista. Da Padova a Brescia a Mantova per finire a Firenze, Roma, Perugia, Pescara o in Sardegna, ecco un elenco dei pubblici ministeri al lavoro. «Da noi - così Petrucci - il doping si cerca. In altri paesi, a livello di magistratura ordinaria, si segua il nostro esempio...».
Lo sfogo di Torri ha lasciato il segno. Lui, il pm dell’antidoping, è impegnato da anni in prima linea ritrovandosi fra le mani omertà o alibi. Ad aiutarlo, per ora, solo Danilo Di Luca, maglia rosa al Giro del 2007: la sua collaborazione avrebbe permesso alla giustizia ordinaria di istruire indagini e nuovi processi. Il 15 ottobre, Di Luca, potrebbe così ottenere uno sconto alla sua squalifica di due anni e riprendere subito a correre.
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