PERCHÉ IL DEBITO PUBBLICO GIAPPONESE PUR ESSENDO ALTO NON È ASSIMILABILE AL NOSTRO?
La storia economica del Giappone, così come quella politica, è sempre stata lineare. Fino al Rinnovamento Meiji, avvenuto in pieno Ottocento (qualche anno dopo che le navi statunitense comandate dall’ammiraglio Perry entrarono nelle acque giapponesi costringendo l’Impero ad aprirsi all’Occidente, altrimenti avrebbero bombardato Tokyo indiscriminatamente), l’economia del Giappone era un’economia basata sul commercio interno. Mentre l’industrializzazione stava raggiungendo il suo apogeo in Gran Bretagna e lentamente anche nel resto d’Europa, il Giappone era ancora un paese preindustriale, con nessuna intenzione di aprirsi al mercato internazionale, pur consapevole della mancanza di materie prime.
Con l’età Meiji, questo cambiò. Oltre a portare una maggiore stabilità politica e a un rinnovamento sociale in senso occidentale (abolizione delle classi privilegiate, modernizzazione della burocrazia e miglioramento del sistema d’istruzione), i Trattati Ineguali, poi abrogati soltanto all’alba del secolo XX, comportarono l’abbattimento delle barriere doganali. I dazi non avrebbero potuto superare il 5%. Ciononostante, per poter continuare il processo d’industrializzazione era necessaria la presenza di un mercato interno forte, cosa che al Giappone mancava, data appunto l’assenza di materie prime. Questa carenza convinse l’Impero e lo stato maggiore della necessità di un’espansione prima di tutto economica, aumentando le esportazioni di seta e tè, ma soprattutto territoriale. Nel 1895 l’Impero Giapponese invade l’isola di Formosa (Taiwan); nel 1905 viene vinta la guerra con la Russia e il trattato di Portsmouth permette all’Impero giapponese di incorporare Port Arthur e altre zone strategiche della Manciuria; nel 1910 la Corea finisce sotto il controllo diretto del Giappone. Il colonialismo giapponese sarebbe poi culminato nell’appropriazione di alcuni porti rilevanti sul Pacifico posseduti dalla Germania, umiliata dopo la Prima guerra mondiale, e nel 1932 nella creazione dello stato fantoccio del Manciukuò.
L’epoca del rinnovamento non portò soltanto cambiamenti politici, ma anche mutamenti all’interno della società giapponese. La mentalità si fece sempre più rigida e ligia al dovere, si fece strada uno stacanovismo che ancora oggi troviamo nella società giapponese. Infatti, nonostante la sconfitta della Seconda guerra mondiale costò caro in termini di vite umane e morali al Giappone, quel modo di concepire la vita all’interno dei confini dell’ex Impero non è scomparso.
Oggi i giapponesi vanno in pensione ad un’età impensabile per gli standard occidentali (bisogna riconoscere però l’altissima aspettativa di vita), lavorando anche a 65 anni a ritmi per noi apparentemente insostenibili. Un’etica del lavoro e del dovere che permette prima di tutto al sistema economico di reggersi quasi da solo e che si riflette anche sulla vita politica. Difatti, il Partito Liberal Democratico ha governato il Paese dal 1955 al 2009 (tranne una parentesi tra il ‘94 e il ‘96), e di nuovo dal 2012, quando è stato eletto primo ministro il liberal-democratico Shinzo Abe, attualmente in carica dopo la vittoria alle elezioni dello scorso anno.
Non fraintendiamoci, quella giapponese non è mica un’autarchia. Stiamo parlando di un paese che per decenni si è contesa il ruolo di leader mondiale in diversi settori e ha contribuito indiscutibilmente al progresso tecnologico degli ultimi 40 anni. Aziende come Toyota, Sony, Mitsubishi, Asics, Mizuno, Rakuten, Casio, Hitachi, JVC Kenwood, NEC, Canon, Nikon e tantissime altre hanno fatto la storia e ancora oggi sono i nomi più famosi nel loro settore. Aziende che sono diventate grandi grazie al commercio internazionale e alla globalizzazione, dunque un paragone con la nostra Olivetti non starebbe nemmeno in piedi.
Quindi, perché il loro debito è sostenibile e il nostro no? La risposta è molto banale, anche se le motivazioni sono diverse, seppur legate tra di loro: IL DEBITO È QUASI INTERAMENTE NELLE MANI DEI GIAPPONESI. Il popolo giapponese, produttore e investitore del suo stesso debito, agisce come una sorta di scudo dalla longa manus degli speculatori finanziari.
E proprio gli speculatori finanziari sono onnipresenti in Europa e soprattutto in Italia. Il nostro debito è un debito tripartito: le banche ne possiedono una buona fetta, poi ci sono gli investitori stranieri (che negli ultimi anni sono passati dal detenere il 34% al 32% del debito) e poi ci siamo noi, cittadini italiani. Come ci ha suggerito di scrivere un nostro lettore: tra noi e il Giappone ci sono 330 punti di spread, per questo motivo loro possono tenere il debito alto. Se vuoi alzare il debito, puoi farlo, devi assumerti le tue responsabilità, ma puoi farlo; e devi accettare che dobbiamo ridurre lo spread.
Dunque l’economia del Giappone è totalmente immune agli attacchi degli speculatori? Per ora sì. Purtroppo, malgrado la disoccupazione bassa, la crisi demografica sembra irreversibile e chi finanzia il debito tra qualche decennio non ci sarà più, per cause naturali. Un’apertura all’estero sarà inevitabile e di conseguenza anche il Giappone si troverà a dover far i conti con il rischio di dover pagare interessi salatissimi su un debito mostruoso.
Ricapitoliamo, quindi: produttività altissima, welfare inesistente, spesa pubblica e pensionistica bassa, debito tutto interno e interessi bassi. Tutto l’opposto della situazione in cui versa il nostro paese. Ecco perché il paragone è e rimarrà insussistente per molto tempo. Pappardella presa direttamente dalla pagina Facebook di "Fare l'esempio del debito pubblico giapponese per sembrare intelligenti".
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