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Agostino Di Bartolomei

Agostino Di Bartolomei (Roma, 8 aprile 1955 – Castellabate, 30 maggio 1994) è stato un calciatore italiano che giocava come centrocampista o libero.

Centrocampista forte tecnicamente e fisicamente roccioso, faceva della visione di gioco abbinata alla potenza la sua arma vincente. In possesso di un tiro potentissimo, usava battere punizioni e rigori con una percentuale altissima di realizzazione. Non essendo molto veloce, sostituiva questa sua carenza con il senso della posizione in campo. Regista di assoluta classe, ha guidato in particolare Roma, Milan e Salernitana da assoluto leader di centrocampo.

Biografia
Di Bartolomei nacque in una delle poverissime borgate romane, tra i caseggiati popolari in condizioni di sovraffollamento e miseria.

Crebbe come campione vicino a Tor Marancia, il quartiere nel sud di Roma in cui era nato, nell'Oratorio S. Filippo Neri alla Garbatella. Passò alla Roma giovanissimo, e si fece subito notare per la sua eccellente tecnica di gioco, entrando presto nella prima squadra della Roma, con cui vinse un titolo del campionato Primavera.

Nel 1972 (stagione 72/73), giocò la sua prima partita con la casacca giallorossa. L'anno seguente subì un grave infortunio al ginocchio, che lo mise fuori gioco per qualche tempo, e gli causò dolori lancinanti impedendogli persino di dormire per otto giorni consecutivi.

Nel 1975 andò in prestito al Vicenza, dove fece esperienza pronto a rientrare alla Roma per ricoprire un ruolo primario. Dalla stagione 76/77 Agostino Di Bartolomei diventò titolare inamovibile della Roma, formando un team perfetto con il brasiliano Falcao.

Con l'avvento della presidenza di Dino Viola e con il ritorno di Nils Liedholm alla guida dei giallorossi, Di Bartolomei divenne il leader della squadra. Negli anni Ottanta raggiunse l'ambito ruolo di capitano della Roma, spesso osannato dal pubblico che, in coro, usava acclamarlo con un ritornello presto diventato mitico: OHOOO Agostino Ago, Ago, Ago, Agostino gol....

Di Bartolomei era un capitano atipico, sempre molto educato e posato nelle sue discussioni con gli arbitri: quando discuteva una decisione o chiedeva chiarimenti, si presentava con le mani raccolte dietro la schiena, con un fare conciliante e mai aggressivo, al contrario di quanto avveniva per quasi tutti gli altri giocatori.

All'inizio della stagione 1982/83 Liedholm ebbe la strana idea di arretrarlo al ruolo di libero, lasciato vacante dalla partenza di Maurizio Turone. Nonostante le prime perplessità sia da parte del pubblico che dello stesso giocatore ed i primi fallimentari risultati sul campo, col tempo il nuovo ruolo mostrò i suoi esaltanti frutti grazie soprattutto alla presenza di Pietro Vierchowod che suppliva alla carenza di velocità di base dello stesso Agostino, con azioni di recupero difensive mai più viste in un campo di calcio.

Le doti di Di Bartolomei erano decantate da Liedholm, che ne apprezzava i "lanci lunghi e perfetti", la "corsa elegante con la testa sempre alta" e i "tiri tremendi".

Questa stagione lo vide conquistare lo scudetto e segnare 7 gol in campionato su 28 presenze, mentre la seguente, 1983/84, caratterizzata dalla sconfitta contro il Liverpool in finale di Coppa dei Campioni, fu l'ultima in giallorosso.

In totale Ago giocò con la Roma 308 gare (146 da capitano) segnando 66 gol. In 11 stagioni giallorosse conquistò anche tre Coppe Italia.

Tecnicamente parlando e dal punto di vista morale, dell'immagine, della lealtà e della sportività globale Agostino rimane un esempio indiscutibile del calcio italiano come pochi altri, ad esempio Gaetano Scirea.

Nella sua avventura romana ha ricevuto una sola espulsione, nella stagione 1978/79 contro la Juventus (gli venne sventolato il cartellino rosso insieme a Pietro Paolo Virdis), in cui segna però anche la rete della vittoria.

Nel 1984 venne inaspettatamente venduto per risanare le casse della società, complice l'arrivo del nuovo coach Sven Goran Eriksson: un mese dopo la sconfitta contro il Liverpool in finale di Coppa dei Campioni, giocò la sua ultima partita in maglia giallorossa nella finale di Coppa Italia vinta contro il Verona. I tifosi gli dedicarono uno striscione: "Ti hanno tolto la Roma ma non la tua curva". Si vociferò insistentemente di contrasti con Falcao, precipitati dal fatto che quest'ultimo si sarebbe rifiutato di tirare un rigore nella finale per una lesione di cartilagine.

Militò successivamente nelle file del Milan, e durante questo periodo, nel 1985 fu coinvolto nell'unico vero episodio di scorrettezza della sua carriera: l'attaccante romanista Ciccio Graziani colpì duramente Di Bartolomei in un intervento, e la reazione di quest'ultimo unita alle intemperanze dei compagni (ed ex-compagni) di squadra trasformò la partita in una rissa. Nelle interviste del dopo-partita, l'ex-compagno Bruno Conti disse che Ago giocava "tranquillo, pulito, senza mai uscire dal campo sudato", un'ambiguità che colpì molto i sentimenti del giocatore. Ma evidentemente il giocatore si sentì tradito dal comportamento della sua ex-società. Con il Milan disputa tre ottime stagioni segnando, tra l'altro, un bellissimo gol in un derby indimenticabile per i colori rossoneri.

Nel 1987 il Milan entrò nell'Era Sacchi, e nella squadra del "modulo" sacchiano non c'era più spazio per un regista puro ma lento come Di Bartolomei (ormai trentaduenne). Venne ceduto al Cesena; concluse la sua carriera nel 1990, nelle file della Salernitana, dove contribuì al raggiungimento della storica promozione in serie B dopo 24 anni di assenza.

Al termine della sua carriera calcistica, pur essendo stato sempre polemico con la vecchia dirigenza per la sua cessione, aspettò a lungo l'interessamento della Roma nei suoi confronti per iniziare una carriera dirigenziale nella squadra della sua città; interessamento che però non ci fu mai.

Fu anche opinionista per la RAI durante i mondiali di calcio nel 1990. Morì suicida il 30 maggio 1994 a S. Marco di Castellabate, un paesino della costa cilentana dove viveva, dopo essersi sparato un colpo di pistola al cuore a dieci anni esatti dalla finale di Coppa dei Campioni persa dalla Roma contro il Liverpool. Di Bartolomei pulì la sua Smith & Wesson calibro 38 con cura, poi si sparò dritto al cuore alle 10.50 del mattino, sul balcone della sua villa. L'intervento del figliastro che tentò di rianimarlo fu inutile.

I motivi del suicidio inizialmente ignoti - si parlò di alcuni investimenti andati male e l'apertura di una scuola calcio di poco successo - divennero chiari quando venne trovato un biglietto strappato in cui il calciatore spiegava i motivi del gesto: era in crisi economica, gli era appena stato rifiutato un prestito e si sentiva abbandonato dagli ex-compagni, "mi sento chiuso in un buco", scrisse [1].

Recentemente il Comune di Roma gli ha dedicato una strada, insieme ad un altro sfortunato giocatore capitolino, l'ex-laziale Luciano Re Cecconi.

A San Marco di Castellabate, dove è morto, è stata fondata una scuola per giovani calciatori che porta il suo nome.

Alla vicenda sportiva e umana di Agostino è liberamente ispirata la storia di uno dei due protagonisti del film L'uomo in più di Paolo Sorrentino.

La canzone "La Leva calcistica del '68" di Francesco De Gregori non è dedicata a Bruno Conti, come alcuni sostengono erroneamente, ma ad Agostino Di Bartolomei.

Inoltre è a lui dedicata (ed è citato insieme a Marco Pantani e Luigi Tenco) la canzone di Antonello Venditti Tradimento e perdono contenuta nell'album Dalla pelle al cuore pubblicato nel 2007.

:cry


Palmarès
Campionato italiano: 1
Roma: 1982/1983
Coppa Italia: 3
Roma: 1979/1980, 1980/1981, 1983/1984
Da Wikipedia

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Autore: gino cervi

Agostino Di Bartolomei parlava poco. Rilasciava interviste e mezza voce e arrossiva. In campo però si faceva sentire. Tutti all'Olimpico ricordano l'urlo dopo il suo gol all'Avellino che nel 1983 consegna lo scudetto alla Roma, in ginocchio a braccia alzate, mentre lo abbraccia un giovane Ancelotti.
Dieci anni fa, il 30 maggio 1994, Agostino Di Bartolomei moriva sparandosi un colpo al cuore . "Oooo Agostino, Ago-Ago-Ago-Agostinoo-o" gridava l'Olimpico quando si appoggiava a terra il pallone per una punizione o un calcio di rigore: il sottofondo in attesa dell'esplosione del tiro, poi il boato che accompagnava il gonfiarsi della rete.

Fu la stessa cosa la sera del 30 maggio 1984. La finale di Coppa dei Campioni si decideva ai rigori tra il Liverpool e la Roma. Ma tutto sembrava già scritto: era l'ultima partita di Ago che, dopo otto campionati nel cuore dei giallorossi, aveva scelto di seguire Liedholm al Milan. Battè il primo dei rigori e la folla dell'Olimpico lo salutò nel solito modo: "Ooooh Agostino, Ago-Ago-Ago-Agostino-oh".

Claudio D'Aguanno, in Diavolo rosso dimentica la strada, saluta il Capitano.


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ER MITO
Mario, l'autore delle poesie

C’era 'na vorta, tanto tempo fa,
‘n posto ‘ndo la vita ‘ncominciava dar corso de quer fiume sempiterno,
da quer rivo, che sempre te faceva sentì vivo,
Je misero nome ROMA, e fù ‘n portento,
er popolo romano era contento,
perché chiunque venisse a rimirallo,faceva poi de tutto pe imitallo!!
Mò dicheno: ”MILAN LE UNA GRAN COSSA!” “TUREN SE, CHE LE MARAVILLIOOSA!”
IO me li guardo, poi penzo nà cosa: “ROMA PERO’ E’ TUTTA NANTRA COSA!!”
Dovunque tu per monno girerai,sempre ‘n segno de ROMA troverai,
sapenno bbbene, che da Adamo in poi,
è sempre questa, ar monno, “LA CITTA!” ROMA!!"


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Agostino Di Bartolomei capitano dell'A.S.Roma 70/80

http://it.youtube.com/watch?v=iryYvsWF0 ... re=related
un bel video per i nostalgici :cry


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Luciano Re Cecconi

Luciano Re Cecconi (Nerviano, 1 dicembre 1948 – Roma, 18 gennaio 1977) è stato un calciatore italiano.

La carriera

Re Cecconi era figlio di un muratore, e cominciò in gioventù a lavorare come carrozziere assieme al cugino, giocando a calcio come hobby.

L'angelo biondo, com'era soprannominato per il colore dei suoi capelli, muove i primi passi sul campo polveroso dell'oratorio di Sant'Ilario Milanese (Nerviano). Da agonista comincia a giocare a calcio nell'Aurora Cantalupo, passando poi alle giovanili della Pro Patria, con cui il 14 aprile 1968, esordisce in Serie C (Pro Patria-Messina 1-1). I capelli biondi gli valsero anche il soprannome di Cecconetzer, un gioco di parole sul nome del calciatore tedesco Günter Netzer, con cui c'era una spiccata somiglianza fisica.

L'anno dopo l'allenatore Carlo Regalia lo inserisce nella rosa dei titolari e coi lombardi disputa una stagione da leader, guidando il centrocampo e collezionando 33 presenze.

Il calcio che conta l'ha già notato: l'allenatore del Foggia Tommaso Maestrelli chiede e ottiene il giovane centrocampista, facendolo esordire all'11° giornata del Campionato di Serie B 1969-70 contro il Perugia (gara vinta dai pugliesi per 2-0). La stagione è brillante e Luciano colleziona 14 presenze e 1 goal, ma soprattutto il Foggia conquista la promozione in Serie A. La stagione 1970-71 non è però delle migliori e il Foggia torna subito in Serie B.

Per il campionato cadetto 1971-72 giunge sulla panchina foggiana Ettore Puricelli, che assegna a Re Cecconi il ruolo di regista di centrocampo. Luciano gioca un ottimo campionato, al termine del quale Maestrelli, divenuto allenatore della Lazio, lo porta a Roma.

È il salto di qualità che Luciano attendeva. Con 29 presenze e 1 goal si proietta tra i protagonisti del campionato 1972-73 che vede la Lazio giungere terza, ad appena 2 punti dalla Juventus campione d'Italia.

Inoltre il ct Ferruccio Valcareggi convoca Re Cecconi nella Nazionale under 23, con cui esordisce 14 gennaio 1973 ad Ankara (Turchia-Italia 1-3).

L'apoteosi giunge l'anno seguente, quando il team di Maestrelli conquista il primo scudetto della sua storia. Re Cecconi, rimasto assente per 7 giornate verso metà campionato a causa di un infortunio, si erge comunque a protagonista, collezionando 2 goal in 23 presenze.

A fine campionato viene convocato da Valcareggi per l'avventura italiana ai Mondiali di calcio Germania Ovest 1974. L'esperienza è però amara, sia perché la Nazionale non supera il primo turno, sia perché Re Cecconi non mette piede in campo.

Le presenze in Nazionale maggiore giungeranno comunque nello stesso anno: il nuovo ct Fulvio Bernardini lo convoca per l'amichevole contro la Jugoslavia il 28 settembre a Zagabria (persa dagli azzurri per 1-0), dove Re Cecconi gioca tutta la partita, e successivamente per la gara in programma il 29 dicembre a Genova contro la Bulgaria (finita 0-0), nella quale entra nel secondo tempo al posto di Causio.

Nella stagione seguente la Lazio non può prendere parte alla Coppa dei Campioni: a causa di una rissa scoppiata negli spogliatoi dell'Olimpico, dopo il ritorno dei sedicesimi di finale della Coppa UEFA dell'anno precedente contro l'Ipswich Town, il club biancoceleste subisce dall'UEFA la squalifica per 3 anni (poi ridotti a 1) dalle competizioni europee. Il campionato non è inoltre all'altezza delle aspettative e la Lazio non riesce a difendere il tricolore.

Il campionato 1975-76 è più difficile e la Lazio, anche a causa dell'addio forzato di mister Maestrelli e alle cessioni di molti dei pezzi pregiati (primo fra tutti Chinaglia), rischia addirittura la retrocessione, ma grazie al miracoloso ritorno, seppur temporaneo, di Tommaso Maestrelli (morirà il 2 dicembre '76 per un tumore al fegato), si salva per un soffio a fine stagione grazie ad una partita maestosa di Re Cecconi e ad una differenza reti migliore rispetto all'Ascoli. Re Cecconi gioca 25 partite, segnando 1 goal, e la Lazio si affida a lui e a Bruno Giordano in vista della stagione successiva.

Per il campionato 1976-77 giunge sulla panchina laziale Luis Vinicio. La Lazio debutta contro la Juventus (finita 2-3 per i bianconeri) all'Olimpico e Re Cecconi delizia i tifosi biancocelesti con un goal capolavoro. Purtroppo sarà anche l'ultimo della sua carriera. Alla terza di campionato contro il Bologna, Re Cecconi subisce al 19' un grave infortunio al ginocchio sinistro dopo un intervento del bolognese Tazio Roversi, che lo costringe ad uno stop di parecchi mesi.

La tragedia

Re Cecconi non ha ancora recuperato dall'infortunio, quando la sera del 18 gennaio 1977 si trova in compagnia di due amici, il compagno di squadra Pietro Ghedin e il profumiere romano Giorgio Fraticcioli. Quest'ultimo deve sbrigare una commissione presso la gioielleria di Bruno Tabocchini, in Via Francesco Saverio Nitti, situata nella tranquilla e decentrata zona della Collina Fleming della capitale.

Quando i tre entrano nel negozio, Re Cecconi esclama per scherzo "Fermi tutti, questa è una rapina!". Purtroppo Luciano ha scelto il posto sbagliato ed il momento sbagliato: Tabocchini ha subito di recente due rapine e il timore che la cosa possa ripetersi lo ha spinto a nascondere sotto la cassa una Walther calibro 7.65. Il gioielliere non riconosce Re Cecconi, che ha il bavero alzato e tiene una mano in tasca: crede che sia un rapinatore, e che stia impugnando una pistola, e fa subito fuoco colpendolo in pieno petto. Re Cecconi si accascia e muore solo mezz'ora dopo.

Tabocchini è arrestato e accusato di "eccesso colposo di legittima difesa"; processato solo 18 giorni dopo, è assolto per "aver sparato per legittima difesa putativa". Il gioielliere aveva subito un'altra rapina meno di un anno prima e da allora portava un'arma carica con speciali proiettili rivestiti.

Re Cecconi muore così, a soli 28 anni. Lascia la moglie, Cesarina, e 2 figli, Stefano e Francesca. Lo sport italiano subisce un profondo shock che dura per giorni. Le sue spoglie sono tumulate nel cimitero della natia Nerviano. Poco dopo la morte è stata creata da Agostino D'Angelo, dirigente laziale e suo grande amico, una fondazione a suo nome, la Fondazione Luciano Re Cecconi - Contro la violenza

Nel Novembre 2003, il Comune di Roma gli ha dedicato una strada, insieme ad un altro sfortunato giocatore capitolino, l'ex-romanista Agostino Di Bartolomei, al quartiere Tuscolano. Inoltre a Nerviano, suo paese natio, porta il suo nome lo stadio comunale che ospita le partite casalinghe della U.S. Nervianese, oltre a gare di atletica leggera.

I mezzi di informazione rumoreggiarono allora su una passione diffusa per le armi all'interno della formazione biancoceleste, nonché su precedenti di finte rapine ai danni di commercianti i quali per fortuna, avrebbero riconosciuto tempestivamente gli autori. Ironicamente, Re Cecconi era uno dei pochi, se non l'unico giocatore della rosa laziale dell'epoca, a non possedere e portare abitualmente un'arma da fuoco
Palmares
1 scudetto
Lazio: 1974
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Re cecconi si scontra con Rivera


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Luigi Meroni detto Gigi (Como, 24 febbraio 1943 – Torino, 15 ottobre 1967) è stato un calciatore italiano.

Morì a ventiquattro anni investito da un'auto mentre attraversava un viale del capoluogo piemontese (Corso Re Umberto) insieme al suo grande amico e compagno di squadra Fabrizio Poletti, poco dopo la fine di una partita tra il Torino Calcio, la squadra in cui militava, e la U.C. Sampdoria. Aveva fino ad allora disputato 145 partite in Serie A realizzando ventinove reti.

Ala destra del Como (la squadra della sua città natale), del Genoa e del Torino, Meroni è ricordato per il talento sportivo ma anche per il modo anticonformista di concepire la vita fuori dai campi da gioco; personaggio a tutto tondo, non semplice campione di calcio, diventò ben presto un personaggio nell'Italia che stava cambiando degli Anni Sessanta.

Il calciatore

Cominciò a giocare a calcio in un piccolo cortile di 60 metri quadrati; dall'età di due anni era orfano di padre, e la madre aveva difficoltà economiche nell'allevare i tre figli.

Cresciuto calcisticamente nelle formazioni giovanili del Como, giunto a giocare in prima squadra sia pure nella seconda divisione, Meroni venne ceduto al Genoa, la più antica squadra di calcio italiana, che all'epoca riviveva un momento di rilancio. All'ombra della Lanterna, Meroni ebbe momenti di grande notorietà. Meroni si accattivò subito le simpatie del pubblico, coi suoi gol impossibili e le finte ubriacanti. La magia rischiò di incrinarsi nell'ultima gara della stagione, quando, chiamato ad un controllo antidoping, Meroni si rifiutò di sottoporsi agli esami di rito (affermò di essersi dimenticato il test in albergo): altri tre giocatori della squadra risultarono positivi alle anfetamine, e Meroni fu squalificato per le prime cinque giornate del campionato 1963.

Nel 1964 nonostante il malcontento della tifoseria genoana fu ceduto al Torino (allenato dal "duro" Nereo Rocco), squadra in ascesa dopo il tragico declino seguito alla Tragedia di Superga (per la cronaca, il pilota dell'aereo che si schiantò contro il terrapieno della Basilica si chiamava, scherzi del destino, Pierluigi Meroni).

Nel 1967 a San Siro, con uno spettacolare pallonetto dal limite dell'area insaccatosi nel "sette" della porta nerazzurra, frantumò il record di imbattibilità detenuto dalla "Grande Inter" di Helenio Herrera, costringendo la squadra milanese alla sconfitta dopo tre anni di imbattibilità.

Con la maglia della nazionale azzurra partecipò all'infausta spedizione guidata dall'allenatore Edmondo Fabbri ai Mondiali di Inghilterra del 1966 - strepitoso un suo goal all'Argentina durante un'amichevole di preparazione disputata nella "sua" Torino - per riprendere con rinnovato entuasiamo la stagione agonistica nelle fila del Toro, fino alla tragica conclusione della sua vita.

Nel 1967 una rivolta dei tifosi granata fece sfumare il ricchissimo contratto da 750 milioni di lire offerto dalla Juventus per l'acquisto del giocatore.

Meroni è stato un'ala destra (giocava con il numero 7) di notevole valore tecnico: amante del dribbling stretto, calzettoni sempre abbassati alla Sivori (all'epoca il regolamento lo consentiva), non si sottraeva all'agonismo, pronto ad affrontare con tenacia e vigoria, nonostante la minuta struttura fisica, i più arcigni difensori della Serie A dell'epoca.

Il personaggio
« Era un simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni »

(Gianni Brera nel necrologio di Gigi Meroni)

Con Sivori, oltre allo stile, condivideva le idee politiche legate all'anarchia, tanto che la stampa gli attribuì il nomignolo di Sivori Italiano.

Generoso sul campo, abbigliamento stravagante nel tempo libero, fortemente condizionato dal clima culturale beat in auge al principio degli anni Sessanta - ma dotato anche di un talento pittorico che avrebbe potuto farne un artista di fama - Meroni fu tanto estroverso negli atteggiamenti pubblici (un'istantanea lo ritrae mentre passeggia per il corso con una gallina al guinzaglio) quanto riservato nella sua vita privata.

L'episodio della gallina era legato al suo conflittuale rapporto con la stampa: dopo che alcuni giornali comaschi avevano avanzato critiche nei confronti di alcuni suoi comportamenti bizzarri, Meroni decise di dare loro di proposito qualcosa di cui parlare. Con la complicità di Fabrizio Poletti arrivò nella piazza centrale di Como su una Lancia Aprilia, fece qualche giro con la gallina al guinzaglio e infine si diresse verso il lago, dove cercò inutilmente di mettere al volatile un bizzarro costume da bagno.

Meroni era un ribelle, un anarchico, un provocatore: portava i capelli lunghi e la barba in un epoca in cui questo significava accomunarsi a rivoluzionari come Castro e Che Guevara agli occhi dell'uomo comune. Per poter giocare in Nazionale, gli fu imposto da Fabbri un taglio di capelli. La stampa si azzannava in diatribe a proposito delle acconciature di Meroni.

Alla seconda convocazione in nazionale, per la partita di qualificazione con la Polonia nel 1965, si rifiutò di tagliarli di nuovo. "Spero di aver mostrato che posso giocare bene anche con una lunga chioma", disse; il fallimento della spedizione mondiale del 1966 però attirò l'odio della stampa su Meroni, che venne additato come "squallido personaggio", "lo zingaro", "Hidalgo", "il Vagabondo". Gli venne attribuita la colpa delle scarse prestazioni nonostante avesse giocato in una sola partita del torneo.

La pressione della stampa fu notevole - e probabilmente al limite del sopportabile per un giovane di poco più di vent'anni che come tanti suoi coetanei amava ascoltare la musica dei Beatles ed il jazz.

Sui giornali apparvero notizie di una sua relazione d'amore con Cristiana Uderstadt, una ragazza italo-polacca che lavorava in un Luna park e che - per andare a vivere nella mansarda che il calciatore occupava nel centro di Torino - fuggì letteralmente da un matrimonio (poi reso nullo) che le era stato imposto dalla famiglia. Meroni l'aveva conosciuta nel 1962, nei pressi del porto di Genova. Meroni era solito regalare a Cristiana una rosa rossa tutti i giorni.

Nereo Rocco non tollerava la presenza di mogli e fidanzate in ritiro, e il sesso era assolutamente fuori discussione. Meroni presentò Cristiana come sua sorella: tutti i giocatori erano a conoscenza della verità, e l'inganno funzionò solo nei confronti di Rocco. Ogni volta che poteva, fuggiva dai ritiri per vedere Cristiana.

L'immagine di Meroni, sicuramente forte per l'epoca, la sua vita in concubinato, il rifiuto di assimilarsi agli stilemi proposti dal mondo del calcio di allora gli valsero però non pochi fastidi culminati in alcune mancate convocazioni in nazionale.

Nell'arco - assai breve - della sua carriera, fece a tempo a diventare un simbolo per gli appassionati di calcio: una icona di quel talento in grado di trasformare una giocata in una pennellata artistica.

La tragedia
« Gigi non era soltanto carne, muscoli e nervi. Era genialità, coraggio, comprensione, altruismo »

(Don Francesco Ferraudo, discorso al funerale di Meroni)

La sera del 15 ottobre 1967, dopo l'incontro contro la Sampdoria dominato dai granata per 4-2, Meroni fu convinto dal suo grande amico Poletti, giocatore nella stessa squadra, ad abbandonare il ritiro post-partita della squadra prima del suo termine.

Dirigendosi verso il bar che di solito frequentava, attraversò avventatamente, nei pressi del civico 46, il corso Re Umberto: percorse la prima metà della carreggiata, fermandosi in mezzo alla strada cercando un momento buono per passare nell'intenso traffico.

Dalla sua destra arrivò rapidamente un'auto troppo vicina. Meroni e Poletti fecero un passo indietro. Poletti fu urtato di striscio da una Fiat 124 Coupé proveniente dal lato opposto, e Meroni invece fu colpito in pieno alla gamba sinistra; fu sollevato in aria dall'impatto e cadde a terra dall'altra parte della carreggiata, per poi venire travolto da una Lancia Aprilia, che ne agganciò il corpo trascinandolo per 50 metri mentre la Fiat 124 Coupé si fermava a bordo strada. Meroni morì poche ore dopo, alle 22.40, all'ospedale Mauriziano, dove venne portato da un passante, tal Giuseppe Messina, poiché l'ambulanza rimase imbottigliata nel traffico post-partita. Arrivò al nosocomio con le gambe e il bacino fratturati, e con un grave trauma cranico.

La Fiat era guidata da Attilio Romero, un diciannovenne neopatentato, di buona famiglia e figlio di un medico agiato, tifosissimo del Torino e grande fan di Meroni di cui aveva copiato anche la capigliatura e con cui aveva una lieve somiglianza fisica. Romero, nel 2000, sarebbe diventato presidente del Torino e nel 2005 l'avrebbe portato al fallimento.

Dopo l'incidente, Romero si presentò spontaneamente alla Polizia, dove venne interrogato fino a tarda notte. Tornò a casa propria in corso Re Umberto, a soli 13 numeri di distanza dalla casa di Meroni. [1]

20.000 persone parteciparono ai suoi funerali, e il lutto scosse la città. Dal carcere delle Nuove di Torino alcuni detenuti raccolsero soldi per mandare fiori. La stampa sembrò per un attimo perdonare la bizzarria contestata in vita, ma la Chiesa si oppose al funerale e criticò aspramente don Francesco Ferraudo per aver celebrato il funerale di un "peccatore pubblico" con riti religiosi. Il quotidiano torinese La Stampa si unì alle richieste dei prelati, e si raccolse un movimento d'opinione per chiedere provvedimenti disciplinari contro il sacerdote.

Dopo il lutto

La settimana dopo il funerale, la squadra del Torino avrebbe affrontato la Juventus nel derby piemontese. Tra il silenzio funereo delle tifoserie di entrambi gli schieramenti, il campo fu inondato di fiori da un elicottero, che furono raccolti poi sulla fascia destra, quella di competenza del giocatore deceduto.

Nestor Combin, un attaccante argentino molto amico di Meroni, insistette per giocare nonostante la febbre che lo aveva colpito pochi giorni prima. In memoria dell'amico, lottando con furia, al terzo minuto segnò un gol, e raddoppiò al settimo, per poi firmare una tripletta al 15° della ripresa. Il quarto gol fu segnato dal successore di Meroni, il nuovo numero 7, Alberto Carelli. È il miglior risultato ottenuto ad oggi in un derby, e ha metaforicamente vendicato i sette derby senza vittorie giocati da Meroni.

Il Torino chiese all'assicurazione di Romero un rimborso per i danni patrimoniali causati dalla perdita del giocatore. All'epoca era un fatto quasi inedito, e i precedenti tentativi (sempre del Torino, dopo Superga), erano stati respinti dai giudici che non avevano riconosciuto il plusvalore rappresentato dall'investimento della squadra in un giocatore di classe.

Nel 1971 la sentenza stabilì che si sarebbe dovuto erogare un risarcimento: la decisione, storica, marcò un netto cambiamento di posizione nel tema dei rimborsi per sinistri.

L'arrivo alla presidenza di Romero, nel 2000, espose la società ad aspre critiche da parte dei tifosi che in parte attribuivano ancora al neopresidente la responsabilità dell'accaduto. Secondo la vedova di Meroni, con l'arrivo di Romero il Torino smise di mandare fiori sulla tomba del giocatore nel giorno del suo compleanno, una tradizione che resisteva da oltre 30 anni.

La tomba di Meroni fu vandalizzata da un tifoso che non riusciva a comporre il dolore per la perdita.

Ancora oggi in occasione di vittorie della squadra, è usanza di una parte della tifoseria andare a porgere omaggio nel punto dove Meroni fu investito. In occasione del quarantesimo anniversario della morte è stato collocato un monumento nel luogo in cui è avvenuto l'incidente.

A Meroni sono stati dedicati vari libri - tra cui quello di Nando Dalla Chiesa, La farfalla granata - e una canzone: "Chi si ricorda di Gigi Meroni?" degli Yo Yo Mundi. A suo nome sono stati intitolati diversi club sportivi e il ricordo di un calciatore che avrebbe potuto dar molto al calcio italiano rimane immutato.

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Valentino Mazzola

« Potete vincere sempre nel calcio, l'importante è che non siate ostili ai cambiamenti. »
Nato 26 gennaio 1919
Cassano d'Adda (MI)
Morto 4 maggio 1949
Superga (TO)

È considerato il giocatore italiano più completo di sempre e uno dei più forti campioni della storia del calcio mondiale. Centrocampista dalla straordinaria visione di gioco, regista, mezzala, attaccante e trascinatore, anticipò l'idea del calciatore universale alla Alfredo Di Stefano. La sua vita è stata tragicamente spezzata dalla tragedia di Superga.

La prima squadra di Valentino Mazzola fu la squadra della città in cui era nato: il Gruppo Sportivo Tresoldi di Cassano d'Adda. Nella Tresoldi inizia a giocare a 14 anni disputando il campionato ragazzi del Comitato U.L.I.C. di Treviglio 1933-1934.

Valentino brucia velocemente le tappe ed approda in prima squadra, che disputa il campionato regionale di 1.a Divisione 1936-1937. Lui è giovane, grintoso, va in gol spesso, ma la Tresoldi non ha l'organico per poter competere ed arrivare in Serie C ed anche nella stagione 1937-1938 termina nelle ultime posizioni di classifica.

Viene però segnalato all'Alfa Romeo di Milano, dalla stagione precedente approdata in Serie C, che lo tessera e con la quale militò durante la stagione 1938-1939. Nell'anno in cui iniziò la Seconda guerra mondiale egli passò al Venezia, società di serie A con la quale si mise in mostra nel massimo campionato.

Con i lagunari giocò come mezzala sinistra, formando con l'ala destra Ezio Loik una coppia perfetta che avrebbe fatto epoca nel nostro calcio.
Il Venezia era allora una squadra modesta, ma la classe ed il temperamento di Mazzola non passarono inosservati. Grazie al suo decisivo apporto, la squadra veneta vinse la Coppa Italia nel 1941 ed arrivò terza al termine della stagione 1941-1942.

Al termine di questa annata passò al Torino, che grazie alla sue imprese e a quelle di alcuni suoi compagni divenne il Grande Torino: con i granata vinse da capitano cinque scudetti (1943 e poi dal 1946 al 1949) disputando in totale 232 partite segnando 109 reti (29 nella stagione 1946-1947, con cui si laureò capocannoniere della serie A).

Quando morì la stagione 1948-1949 non era ancora conclusa, ma la Federcalcio, su richiesta di Inter e Milan - a nome di tutte le altre società -, decise di assegnare lo scudetto al Torino, alla memoria. Per i restanti incontri, la società torinese dovette dunque schierare la squadra delle riserve, che era comunque altrettanto temibile (ancora oggi il settore giovanile è un fiore all'occhiello della società), e li vinse tutti e quattro. Occorre comunque precisare che, contro il Torino-B, gli avversari, per solidarietà, mandarono in campo le riserve.


Nazionale
Meno fortuna ebbero le sue esperienze con la Nazionale di calcio italiana: l'esordio avvenne il 5 aprile 1942, quando l'allora commissario tecnico Vittorio Pozzo lo fece scendere in campo durante l'incontro amichevole Italia-Croazia 4-0. Il suo primo centro in azzurro arrivò pochi giorni dopo, e più precisamente il 19 aprile, allorché gli azzurri travolsero 4-0 la Spagna.

Memorabile fu la sua prestazione durante Svizzera-Italia 4-4 dell'11 novembre 1945: realizzerà quattro assist. La sua prima partita da capitano degli italici avvenne durante la sfida contro la Cecoslovacchia, eseguita il 14 dicembre 1947 e terminata col punteggio di 3-1 per gli azzurri.

Nel complesso Valentino Mazzola vestì la maglia della nazionale per 12 volte segnando 4 goal. Giocatore completo, possedeva in più il grande carisma del capitano, capace di "sentire" la partita e di trasmettere ai compagni coraggio e generosità agonistica.


Famiglia
Valentino Mazzola si sposò due volte. Con la prima moglie ebbe due figli di cui uno, Sandro, sarebbe diventato un grande campione dell'Inter. L'altro figlio, anche lui futuro calciatore, venne chiamato Ferruccio in onore di Ferruccio Novo, presidente del "Grande Torino".

Nel 1946 il suo matrimonio finì e Mazzola, che nel frattempo si era risposato, ottenne la custodia del figlio Sandro.

Le lezioni di calcio che egli tenne a suo figlio tornarono a Sandro molto utili quando egli divenne un pilastro dell'Inter e della Nazionale. Anche se Sandro vinse molti più trofei rispetto a Valentino, si deve considerare che negli anni in cui si svolse la carriera di Valentino Mazzola non vennero disputati campionati del mondo di calcio né coppe internazionali.

Il disastro di Superga

L'incidente aereo avvenne dopo che il Torino aveva disputato un incontro amichevole a Lisbona che proprio Valentino Mazzola aveva organizzato. I morti furono 31, perirono anche i giornalisti Renato Casalbore (Tuttosport), Luigi Cavallero (La Stampa) e Renato Tosatti (Gazzetta del Popolo). Per varie ragioni tre componenti di quella magica squadra non salirono sull'aereo per Lisbona: Giuliano, Gandolfi e il più famoso Sauro Tomà, fermato dal medico per un infortunio al ginocchio. Anche Ferruccio Novo, bloccato dalla broncopolmonite, si salvò, così come il grande Nicolò Carosio che rimase a casa per la cresima del figlio.

L'incidente aereo di Superga è considerato, con la Strage dell'Heysel, il più grande evento luttuoso del calcio italiano.

Palmarès
Club
Campionato italiano: 5
Torino: 1942/43, 1945/46, 1946/47, 1947/48, 1948/49
Coppa Italia: 2
Venezia: 1940-41
Torino: 1942-43
Capocannoniere della Serie A italiana: 1
1946/47 (29 reti)


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