Oggi è gio 18 apr 2024, 21:09

Tutti gli orari sono UTC + 1 ora [ ora legale ]




Apri un nuovo argomento Rispondi all’argomento  [ 34 messaggi ]  Vai alla pagina 1, 2, 3, 4  Prossimo
Autore Messaggio
 Oggetto del messaggio: L'evoluzione del Calcio Totale
MessaggioInviato: gio 17 ott 2013, 14:46 
Non connesso
Campione Olimpico
Campione Olimpico
Avatar utente

Reg. il: ven 23 nov 2012
Alle ore: 11:00
Messaggi: 7439
Negli anni Settanta Stefan Kovacs ad un convegno sbalordì la plateo sostenendo che "Il Calcio Totale è sempre esistito". Questo perchè il cosiddetto calcio Totale non è nato all'improvviso negli anni 70 con l'Olanda ma è una filosofia calcistica che è nata nella notte dei tempi e si è evoluta nel corso del tempo seguendo certe tappe, vediamole:

AUSTRIA (1930-34): il Wunderteam fu la prima squadra ad applicare una sorta di calcio Totale primitivo. Il tecnico austriaco Hugo Meisl nel 1935 spiegò così la sua filosofia di gioco innovativa: “Tutti gli undici uomini di una squadra devono stare sempre in movimento, per non permettere all’avversario di indovinare le loro intenzioni. Tutti i giocatori, anche il portiere, devono saper costruire. Sempre in azione e continuamente diretti verso la porta avversaria! Mai passare davanti a un compagno di gioco per non togliergli lo spazio. Questo è il mio sistema: nessun sistema. Intelligenza, velocità e sorpresa sono gli elementi del successo…. Noi continentali abbiamo estro e stile e pertanto il Metodo è la forma di gioco di gran lunga più conveniente e più efficace.” Le novità portate dal Wunderteam di Meisl furono le seguenti: copertura razionale degli spazi sul campo, difesa a zona (seppur ancora rudimentale) e applicazione sistematica della trappola del fuorigioco, attacco agli spazi con e senza palla in fase offensiva.

RIVER PLATE (1942-47): la cosiddetta Maquina perfezionò quanto teorizzato da Meisl in fase offensiva mentre in fase difensiva fu perfezionato il concetto di difesa a zona, il River fu la prima squadra ad introdurre il concetto di raddoppio di marcatura e d'interscambio in fase difensiva. Infine con pedernera fu inventato il primo centravanti di manovra, un attaccante che era finalizzatore ma allo stesso tempo registra della squadra, che aveva il compito di segnare ma anche di far segnare i compagni (specialmente l'interno sinistro) che dovevano attaccare lo spazio lasciato scoperto dal suo movimento "a rientrare"

GRANDE TORINO (1943-49): il Grande Torino fu la prima squadra a proporre dei movimenti e degli interscambi in senso verticale: il terzino sinistro (Maroso) diveniva spesso un'ala aggiunta in attacco, l'ala sinistra (Ossola) un centrocampista aggiunto in fase difensiva, mediani e mezzeali si scambiavano continuamente di posizione creando una sorta di vortice, nacque il primo giocatore universale della storia (Mazzola), che era allo stesso tempo difensore, centrocampista e bomber principe della squadra. In fase di non possesso palla il Toro si disponeva con un a sorta di 4-4-2 anticipando di vent'anni circa la teorizzazione di questo modulo. Ultima ma non meno importante novità: fu introdotto il concetto di pressing, un pressing ancora a folate e non continuo.

HONVED/UNGHERIA (1950-56): l'Honved perfezionò molti concetti fatti già intravedere sia dal Torino che dal River Plate. Il pressing degli ungheresi divenne più continuo e costante, anche se venne utilizzato ancora come un'arma difensiva, adibita cioè principalmente al recupero palla, e non offensiva come dall'Olanda negli anni 70. Con l'Aranycsapat gli interscambi verticali divennero totali: per la prima volta tutti i giocatori partecipavano alla fase offensiva e a quella difensiva. Fu perfezionato il concetto di falso nove: se nella Maquina il maggior beneficiario del movimento del falso nove era l'interno sinistro (come da schema della diagonale), con l'Ungheria tutti i giocatori, attaccanti e centrocampisti, erano pronti ad attaccare gli spazi in verticale sfruttando il movimento a pendolo di Hidegkuti (o Palotas).

AJAX/OLANDA (1970-74): l'Ajax di Michels portò all'estremo tutti i procedimenti descritti sopra. Michels principalmente unì al concetto danubiano di gioco a zona, attacco agli spazi ed interscambi, l'atletismo e i ritmi alti (e spesso monotoni) tipici del calcio nordico. Con l'Ajax Gli interscambi e i movimenti divennero "totali", cioè sia in senso sia in senso orizzontale che verticale, de facto furono aboliti i ruoli e la preparazione fisica divenne fondamentale e cardinale nel gioco del calcio. Non solo un giocatore, ma tutti i giocatori, secondo i dettami di Michels, dovevano essere capaci di fare tutto.


Share on FacebookShare on TwitterShare on Google+
Top
 Profilo  
 
 Oggetto del messaggio: Re: L'evoluzione del Calcio Totale
MessaggioInviato: gio 17 ott 2013, 15:31 
Al solito, ricostruzione molto interessante...


Top
  
 
 Oggetto del messaggio: Re: L'evoluzione del Calcio Totale
MessaggioInviato: ven 18 ott 2013, 12:28 
Non connesso
Moderatore
Moderatore
Avatar utente

Reg. il: dom 10 apr 2005
Alle ore: 14:02
Messaggi: 7175
Se può interessare, alcuni miei vecchi pezzi, già pubblicati anche qui sul Forum.



AUSTRIA WUNDERTEAM


Una squadra da sogno che finisce i suoi giorni in incubo. Questa, sintetizzata in una sola frase, è l’Austria Wunderteam. Una formazione meravigliosa e altamente spettacolare, ideale prolungamento di quello che nel Mondo era stato l’Impero austro-ungarico: armonia, grazia, eleganza. L’Austria Wunderteam unisce al suo interno le componenti di razza e stile proprie delle tre culture che avevano reso così sublime il regno asburgico: la cultura tedesca, quella slava e quella ebraica. Un mix che genera un calcio nuovo, gettando le basi dei moderni sviluppi di un gioco di iniziativa, privo di ruoli fissi, infarcito di scambi palla a terra e grande eleganza di tocco e di movimenti.

Il creatore e allenatore di quella squadra è l’ebreo Hugo Meisl, ex calciatore, arbitro e dirigente. Difficile ricostruire un undici base, schierato naturalmente secondo l’imperante Metodo: in porta si alternano Hiden, uno dei massimi interpreti del ruolo tra le due guerre, e Platzer; i terzini sono Blum e Schramseis poi Cisar e il rude Seszta; Braun, Nausch, Wagner e Smistik i mediani, comandati al centro da Hoffmann, motore e cervello dell’intera manovra. La prima linea si avvale di giocatori di straordinaria levatura, quasi tutti in linea tra loro, e non disposti secondo la W classica: le ali Zischek, dalle finte inafferrabili, Vogel, Viertl, gli interni Muller, Schall, Gschweidl e Kaburek. Centravanti Matthias Sindelar, il più grande. I viennesi, di cui è l’idolo, lo chiamano “Der Papierene”, in italiano liberamente tradotto in Cartavelina, perché gli avversari dicono che quando si muove lo fa contemporaneamente in più direzioni, come un foglio di carta in balìa del vento. È l’emblema del calcio danubiano: elegante e armonioso, dribbling secco, tiro potente e preciso, innato fiuto del gol.

Il 16 maggio 1931 un terrificante 5-0 sulla Scozia (all’epoca ritenuta una delle migliori compagini del continente) segna il via dello strapotere austriaco. La nazionale di Meisl si guadagna ben presto l’appellativo di “Wunderteam”, squadra delle meraviglie, attraverso anni di imbattibilità e prestazioni favolose su tutti i campi d’Europa. Cade soltanto a Stamford Bridge, beffata 4-3 dai maestri inglesi, dopo che era stata avanti fino a pochi minuti dal termine. Logico che al Mondiale ’34 una simile, portentosa, macchina di reti e spettacolo si presenti con i galloni di grande favorita. Ma quello è il Mondiale organizzato dal Duce in persona, lo strumento che serve a Mussolini per farsi bello agli occhi del Mondo e mettere in mostra le virtù della patria italica. Gli azzurri, dopo aver già beneficiato di generosi aiuti arbitrali nei quarti contro la Spagna, fermano in semifinale la corsa dell’Austria: 1-0, rete, ai più parsa irregolare, dell’oriundo Guaita con Sindelar picchiato duramente da Monti sotto gli occhi compiacenti del direttore di gara.

Dopo la beffa del Mondiale italiano, l’Austria continua a furoreggiare per un altro paio di stagioni, prima che la politica prenda il sopravvento e i sinistri venti di una guerra senza precedenti si abbattino come una scure sul collo della debole Europa. La Germania, il cuore della cultura, la patria della filosofia e del pensiero moderno, sta andando incontro alla più folle e insensata delle esperienze: il suo spietato dittatore, Hitler è di nascita austriaca e nel 1937 decide di annettere l’Austria. L’ “Anschluss” segna la fine del meraviglioso Wunderteam, formazione composta da molti elementi di religione ebraica. Come l’allenatore Meisl, che si uccide ingerendo del cianuro. E come lo stesso Sindelar, suicida insieme alla compagna, una studentessa italiana, il 22 gennaio 1939, per evitare una persecuzione che non avrebbe risparmiato nemmeno lui, l’uomo che danzava sul pallone come orchestrando una travolgente sinfonia.


Top
 Profilo  
 
 Oggetto del messaggio: Re: L'evoluzione del Calcio Totale
MessaggioInviato: ven 18 ott 2013, 12:29 
Non connesso
Moderatore
Moderatore
Avatar utente

Reg. il: dom 10 apr 2005
Alle ore: 14:02
Messaggi: 7175
IL GRANDE TORINO


Quando il Grande Torino, quel maledetto 4 maggio 1949, si infrange contro il terrapieno della basilica di Superga, chiudono scuole, uffici pubblici, fabbriche in tutta Italia, e viene proclamata giornata di lutto nazionale. Perché il Grande Torino non è soltanto una squadra di calcio e basta: è il simbolo di un Paese che rinasce, la speranza dopo gli anni bui della Seconda Guerra Mondiale. Il presidente Novo, imprenditore nel ramo delle pelli, la costruisce nel periodo pre-bellico, quando fa arrivare dalla Juventus il portiere Bodoira e i centravanti Felice Placido Borel e Guglielmo Gabetto, considerati finiti in maglia bianconera; e un pacchetto di ali di grande impatto e rara eleganza: il varesino Franco Ossola, il vicentino Romeo Menti dalla Fiorentina e il vercellese Ferraris II dall’Ambrosiana (Inter). Grazie ai consigli del ct della Nazionale Vittorio Pozzo, da sempre sostenitore della squadra granata, Novo completa il mosaico durante il conflitto.

Le basi vengono gettate nella stagione 1941-42: su pressione dell’attaccante Borel II e dell’allenatore Kutik, Novo approva la scelta di utilizzare il Chapman System, abbandonando così il vecchio Metodo, tanto caro alla scuola italiana. Il Torino dà vita a un appassionante lotta al vertice con Roma e Venezia. A poche giornate dal termine, i granata sono ospiti dei veneziani, terza forza del campionato. Il Toro passa in vantaggio ma è un fuoco di paglia. I padroni di casa, sospinti dal formidabile duo di mezzali Loik-Mazzola, ribaltano la situazione e si impongono 3-1. Nell’intervallo del match il presidente Novo scende negli spogliatoi, stregato dai due assi. Stacca un assegno da 1.250.000 lire (cifra mostruosa per i tempi) più Petron e Mezzadri e riesce a strappare Loik e Mazzola alla Juventus, da tempo sui giocatori ma beffata dalla scelta temporeggiatrice del suo presidente Dusio. I granata chiudono il torneo al secondo posto, alle spalle della Roma, ma è già chiaro che dalla stagione seguente il discorso sarebbe cambiato. Novo oltretutto completa le fila con l’acquisto del poderoso mediano Grezar dalla Triestina.

Nel 1942-43, il Torino conquista finalmente lo scudetto, il secondo (o il terzo se si considera il titolo revocato del 1927-28) della sua storia, con un punto di vantaggio sul sorprendente Livorno. Il campionato si ferma quindi per un anno e mezzo. In cui il Toro, unito al marchio Fiat e irrobustito dalla presenza del bomber della Nazionale Silvio Piola, partecipa al torneo di guerra ed è battuto in finale dai Vigili del Fuoco di La Spezia solo per i postumi di un massacrante viaggio in Friuli. Finita la guerra, Novo aggiunge quattro pedine in difesa: il portiere Bacigalupo dal Savona, il terzino destro Ballarin dalla Triestina, il mediano sinistro Castigliano dallo Spezia. In più, dalle giovanili, spunta il virgulto Virgilio Maroso.

Con una simile intelaiatura, il Torino conquista quattro scudetti consecutivi, sbriciolando 22 primati di squadra! Tra i più significativi, il massimo punteggio in classifica, con la vittoria da due punti (65), il massimo vantaggio sulla seconda (+16), il massimo numero di gol realizzati (125), il più alto numero di partite vinte in casa (19 su 20), la vittoria più larga (10-0 sull’Alessandria)... Quasi tutti i 22 record si riferiscono alla stagione 1947-48, quando il Grande Torino raggiunge il suo massimo fulgore. Tra le imprese da consegnare al mito, anche il maggior numero di giocatori dati alla Nazionale per una sola partita (10, tutti tranne il portiere Bacigalupo, per Italia-Ungheria 3-2 dell’11 maggio 1947). Logico che un simile portento entri nel cuore di tutti, soprattutto in un periodo così avaro di certezze e ricco di problematiche come il dopoguerra italiano. Il discobolo Consolini, la rivalità Coppi-Bartali e poi loro, gli invincibili campioni granata: questi gli eroi della rinascita, le guide per un futuro migliore.

Una squadra che diventa tale grazie alla mano del factotum (dirigente, preparatore, a tratti anche allenatore) ebreo-ungherese Egri Erbstein, fuggito alla persecuzione nazista durante la guerra. Erbstein viene dalla grande scuola danubiana, crede dunque a un gioco armonico, fatto di passaggi brevi, manovrato e cadenzato. Ma ha l’intelligenza di capire che bisogna tenere conto delle differenze genetiche e strutturali degli atleti italiani e latini rispetto a quelli mitteleuropei. Per prima cosa, programma sedute quasi quotidiane di allenamenti molto più duri e specifici di quelli in voga al tempo, in modo da irrobustire la fibra atletica. Prima di ogni partita, dà vita a poi a quello che si sarebbe detto “riscaldamento” in modo da temprare il fisico e portare i giocatori a un approccio agonistico decisamente più all’avanguardia. Il giorno dopo la partita è invece dedicato a bagni, docce e cure defatiganti che permettano un pieno recupero.

La superiore preparazione atletica, che abbiamo prima analizzato, dà modo al Grande Torino di effettuare un’efficace pressione sui portatori di palla a tutto campo e annicchilire la resistenza di qualsiasi rivale grazie al celeberrimo “quarto d’ora”. Trattasi di dieci minuti nei quali i granata, sul campo di casa del Filadelfia, vengono guidati dallo squillo del trombettiere Bolmida e dal gesto del proprio condottiero, il capitano Valentino Mazzola, che si rimbocca le maniche e suona la carica. Il risultato è un vortice impetuoso che muove verso la porta avversaria con una forza e una carica impressionanti, e sfruttando una velocità di base di almeno vent’anni avanti. In quei dieci minuti, il Torino si rende capace di miracoli autentici, recuperare uno 0-3 alla Lazio e trasformarlo in un 4-3 a proprio favore, infilare 6 reti alla Roma, seppellire di reti qualsiasi formazione del campionato. A livello tattico, poi, Erbstein sfrutta la grande versatilità di molti componenti della rosa per applicare un calcio di movimento, tipico della scuola danubiana e già teorizzato e in parte messo in pratica da Hugo Meisl nel Wunderteam austriaco.

Il Grande Torino è schierato con un Sistema anomalo, nel senso che il modulo inventato da Chapman costituisce la base ma poi si modella a seconda dei movimenti dei calciatori granata. Davanti a Bacigalupo, portiere dai riflessi felini, modernissimo nei fondamentali e ancora in fase ascendente quando muore a Superga a soli 25 anni, la difesa consta di tre elementi di grande levatura e mobilità: il terzino destro Ballarin, attaccante di complemento, il centromediano Rigamonti, dalla solida stazza e dall’atletismo dirompente e il terzino sinistro Maroso, forse il difensore più tecnico della storia del nostro calcio, nonché il primo terzino fluidificante: suoi degnissimi eredi sarebbero stati Cervato, Facchetti, Cabrini e Paolo Maldini. La classe superiore, i virtuosismi tecnici e la straordinaria velocità (a 22 anni corre i 100 metri in 11 secondi) avrebbero forse consentito a Maroso di evolvere nel corso della carriera verso ruoli di maggior estro, quali l’ala o la mezzala o anticipare la lezione innovatrice di Franz Beckenbauer. Tutte ipotesi affascinanti e fantasiose, rese vane dal rogo di Superga che lo rapisce in cielo a soli 24 anni.

A centrocampo, il quadrilatero sistemista si avvale di due polmoni d’acciaio in veste di mediani: il triestino Grezar, al contempo anche raffinato stilista, e l’onnipresente Castigliano, una vera forza della natura ed efficacissimo anche come stoccatore (arriva a segnare ben 13 reti nella seconda parte del campionato 1945-46). In fase di non possesso palla, Grezar arretra sulla linea dei difensori formando così qualcosa di molto simile a una moderna difesa a 4, che da destra a sinistra allinea Ballarin, Rigamonti, Grezar e Maroso. La riprova di quello che dicevamo prima e cioè della grande mobilità tattica del Sistema granata.

In regia, le due mezzali strappate al Venezia: a destra, l’infaticabile fiumano Loik, a sinistra, il capitano e anima Valentino Mazzola, il più completo calciatore di sempre del calcio italiano. Mazzola raccoglie la lezione di Alex James e va oltre: non si limita ad arretrare fin quasi sulla linea di difesa, dirigere il gioco in mezzo e rifinirlo in avanti con il piglio del condottiero, ma si incunea nell’area avversaria risultando anche il più devastante dei goleador. Ne realizza ben 130 in 256 partite, con l’apice del 1946-47, quando si laurea capo-cannoniere del campionato con 29 centri. In attacco, il funambolico Menti a destra, il regolare Ferraris II (nell’ultima stagione Ossola che passa alla storia nella formazione titolare) a sinistra e il “Barone” Gabetto al centro. Anche in questo caso, quando il Torino è sulla difensiva, Ferraris II arretra per irrobustire il centrocampo privato di un uomo, visto lo spostamento in difesa di Grezar.

Le imprese del Grande Torino fanno il giro d’Europa e del Mondo, anche se all’epoca non sono ancora riprese le competizioni internazionali ufficiali. Capita così che il capitano del Benfica e del Portogallo, José Ferreyra, amico di Valentino Mazzola, inviti la squadra granata in occasione del suo addio al calcio. Il Grande Torino, con il quinto scudetto già in tasca, vola a Lisbona per disputare l’amichevole celebrativa ai primi di maggio.

Il ritorno è previsto per il 4 maggio 1949. La fitta nebbia che copre Torino rende quasi impossibile la vista. Alle 17.05 il trimotore Elce I della Fiat si schianta contro il terrapieno della basilica di Superga, causando la morte istantanea di tutti e 31 i componenti a bordo: 18 giocatori del Torino, 2 tecnici (Erbstein e l’inglese Lievesley), 3 dirigenti e 4 membri dell’equipaggio. Unici sopravvissuti di quello squadrone leggendario sono il presidente Novo, rimasto a casa perché reduce da una broncopolmonite, due giocatori, le riserve Gandolfi (portiere) e Tomà (terzino sinistro), il segretario Giusti e il dirigente Rocca. Le restanti quattro giornate di campionato vengono giocate dalla squadra ragazzi e lo scudetto assegnato d’ufficio.

L’Italia è sconvolta. Nel morale, nello spirito ma anche a livello tecnico, visto che i giocatori del Torino costituivano l’ossatura della Nazionale, e 6 o 7 di loro sarebbero presumibilmente partiti titolari al campionato del Mondo dell’anno seguente. Ci vogliono dieci anni prima che il nostro calcio riesca a rialzare la testa. Si dissolve così, da un giorno all’altro, quella che per tutti gli italiani resterà per sempre la squadra più amata


Top
 Profilo  
 
 Oggetto del messaggio: Re: L'evoluzione del Calcio Totale
MessaggioInviato: ven 18 ott 2013, 12:30 
Non connesso
Moderatore
Moderatore
Avatar utente

Reg. il: dom 10 apr 2005
Alle ore: 14:02
Messaggi: 7175
LA GRANDE UNGHERIA

E’ forse la più grande squadra di calcio di tutti i tempi, e non può essere altrimenti visto che nel progetto dell’ “Aranycsapat” (squadra d’oro) si mescolano un concentrato di rivoluzioni epocali sul piano tattico e dell’idea di squadra con una qualità offensiva dei singoli sbalorditiva, senza paragoni. Allenatore, maestro e guida della squadra è Gusztav Sebes, ex centromediano di buon livello, diventato ct della Nazionale nel 1949. L’eleganza e la grazia dell’impero asburgico sono oramai un lontano ricordo, e così pure il calcio danubiano che tanto aveva spopolato prima del conflitto, pare entrato in un irreversibile declino.

Ma dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale cresce nella piccola patria magiara una fioritura di talenti unici, di quelle che di solito si verificano in un Paese una volta ogni 100 anni. La nuova svolta comunista impone alle squadre di calcio un collegamento diretto con le aziende statali e i corpi istituzionali: dalla Kispest nasce così la Honved, la squadra dell’esercito che in italiano significa “Difesa della patria”. Una formazione nella quale in pochissimo tempo vengono fatti confluire i migliori giocatori del Paese, in modo da formare una sorta di invincibile armata. La Honved vince quattro scudetti (’50, ’52, ’54 e ’55) prima dell’invasione di Budapest del ’56 che provoca la fuga dei componenti di quel Dream Team nei campionati occidentali. Sebes forgia l’Ungheria intorno al blocco della Honved, ai quali aggiunge qualche elemento dell’altra squadra dominante del Paese, il Voros Lobogo (ex Mtk).

Con certosina pazienza il tecnico plasma così una Nazionale senza rivali al Mondo, ma con un punto debole: l’attacco. Il più forte centravanti del calcio magiaro, il grande Bamba Deak, capace di segnare ben 66 reti nel campionato 1945-46, entra in conflitto con i vertici comunisti ed è costretto così a lasciare la Nazionale. Lo sostituisce Palotas, altro giocatore di squisite proprietà tecniche, ma non in linea con le idee di Sebes. L’allenatore magiaro ha infatti in mente una correzione tattica per meglio assecondare il valore degli interpreti.

Disponendo di due interni dalle eccezionali medie realizzative, quali Kocsis e Puskas, più inclini al ruolo di mezzali metodiste che sistemiste, l’allenatore cambia la disposizione offensiva: l’attacco non disegna più una W, ma una M con i due interni avanzati rispetto alle due ali e al centravanti. Con il nuovo modulo a WM, è necessario trovare un centravanti che non sia tanto e solo un terminale, quanto un tessitore dell’intera manovra. Sebes individua questo anello mancante in Nandor Hidegkuti, all’epoca ala del Voros Lobogo. L’allenatore prova in svariate amichevole Hidegkuti quale vertice arretrato della M offensiva, ma sempre senza i risultati sperati. Il valore del giocatore non si discute, come dimostrano le prestazioni fantastiche con il club. Sebes capisce ben presto che il problema è psicologico: Hidegkuti soffre troppo la pressione quando si trova a vestire la maglia dell’Ungheria e non riesce a rendere come il suo talento imporrebbe. A pochi mesi dai Giochi Olimpici del ’52, la nazionale affronta a Varsavia in un doppio probante test-match Polonia e Finlandia. Improrogabili impegni vietano a Sebes di prendere parte alla trasferta.

L’allenatore anticipa la formazione, con Palotas centravanti titolare tra le mezzali Kocsis e Puskas. Affida quindi al vice Gyula Mandi e a Ferenc Puskas una busta contenente una lettera, ordinando ai due di aprirla solo poco prima del fischio iniziale. Sulla busta c’è scritto: centravanti al posto di Palotas, giocherà Hidegkuti. Il nostro, già in tribuna, viene chiamato in tutta fretta negli spogliatoi, si cambia ed entra in campo. L’Ungheria asfalta i polacchi 5-1, Hidegkuti segna due reti ed è il migliore in campo. Il segreto di un così sconvolgente cambiamento di rendimento? Lo spiega lo stesso Hidegkuti: La sera prima mi sono coricato tranquillo, convinto di non giocare, e ho dormito sereno senza pressioni né paure.

Sebes ha trovato il tassello mancante, Hidegkuti ha vinto la paura: l’Ungheria può finalmente riversare sul resto del pianeta il proprio prodigioso arsenale di fuoco. Le Olimpiadi di Helsinki si fanno testimoni di una squadra che vince l’oro a redini basse, incantando pubblico e addetti ai lavori con un calcio mai visto, sublimato dall’estro di interpreti meravigliosi. Un calcio dove il talento, la tattica, il movimento, l’idea di squadra raggiungono vette inesplorate.

I calciatori ungheresi giocano a memoria, sono capaci di capovolgere il fronte del gioco con 3 passaggi in verticale, come di avvicinarsi gradatamente alla porta avversaria attraverso una manovra intessuta di 15-20 passaggi, tutti palla a terra, tutti o quasi tutti di prima. Un tourbillon magistrale che stordisce qualsiasi avversario, incentrato su un movimento continuo da parte di tutti i giocatori, sia in fase di possesso che di non possesso palla, su fuorigiochi continui, su sovrapposizioni costanti. Il pallone viene lanciato negli spazi vuoti, in modo da obbligare il compagno a correre per andare a ricevere il passaggio. Un meccanismo sconvolgente, dato che fino ad allora il giocatore era solito rimanere fermo, in attesa del lancio, e non era assolutamente abituato allo scatto, tantopiù così sistematico. Vittorio Pozzo, due volte campione del Mondo con l’Italia, dichiara di non aver mai visto un calcio così spettacolare, la rivista tedesca Kicker scrive che 90 minuti sono troppo pochi per assistere a un simile prodigio.

L’Ungheria diventa la stella d’Europa, vessillifera di un football nuovo, che vent’anni dopo sarebbe stato etichettato come “totale”. Ma quello in realtà è calcio nella sua accezione più pura e semplice. Perché per quanto appaia così ricco, variegato e impossibile da replicare, nasce dalle coordinate del talento più straordinario, dell’estro del singolo, del divertimento. Dietro alle nostre vittorie non ci sono molti segreti, dichiara un giorno Puskas. Giochiamo per il piacere di farlo, tatticamente non esistono soluzioni particolarmente innovative. La filosofia è quella, semplicissima, di buttare la palla in fondo al sacco, sempre e comunque.

Al suo massimo, l’Ungheria presenta Gyula Grosics, uno dei più forti portieri di tutti i tempi, tra i pali. In difesa, a destra opera il pendolino Buzansky, vero e proprio terzino fluidificante, tecnicamente valido ma non eccelso, però dotato di abilità agonistiche e atletiche straordinarie, che gli consentono di avanzare fino al capolinea della fascia. Il centromediano sistemista è il possente Lorant, con a sinistra Lantos, altro terzino d’attacco nelle giornate di vena. In mezzo al campo, Zakarias è il mediano sinistro e svolge un prezioso lavoro oscuro.

Sul fronte destro, il leggendario Bozsik, considerato il più grande mediano di tutte le epoche, immenso direttore d’orchestra, capace di cancellare dal campo la più pericolosa delle mezzali avversarie come di azionare le impareggiabili bocche da fuoco dell’attacco, con lanci da 70 metri precisi al millimetro o con pennellate di nitidissima classe. La prima linea vede Budai II (in alternativa Toth) finta ala destra, dato che ha la tendenza ad accentrarsi e dare manforte al centrocampo. Sul versante sinistro, opera invece l’ “uccello pazzo” Zoltan Czibor, campionissimo del ruolo, in grado di partire verso la porta avversaria con finte ubriacanti o scoccare micidiali conclusioni dal limite dell’area. In mezzo, a dirigere il traffico, il già citato Nandor Hidegkuti, che non dimentica affatto come si fa a segnare (68 partite e 39 reti in Nazionale) ma veste più spesso i panni del rifinitore, sfruttando doti straordinarie di assist-man e costruttore del gioco.

I due interni avanzati, in pratica delle mezzali metodiste, Sandor Kocsis e Ferenc Puskas, rappresentano una coppia offensiva di insuperabile efficacia. Il primo, detto “testina d’oro” è probabilmente il più forte colpitore di testa di ogni tempo. Sbalorditiva la sua media gol in Nazionale, con 75 reti in 68 presenze, si laurea capo-cannoniere al Mondiale ’54 quando in 5 gare mette a segno la bellezza di 11 gol. Sul centro-sinistra la stella assoluta e icona del calcio ungherese, Ferenc Puskas, che in un’ideale graduatoria dei migliori calciatori di ogni tempo occuperebbe di certo una delle primissime posizioni. Il sinistro sembra forgiato dalla grazia del Signore, la forza fisica è dirompente, la capacità realizzativa non ha eguali (84 gol in 83 partite in Nazionale, 1328 in carriera), il dribbling secco e micidiale, la tecnica modernissima. Ma il colonnello (così soprannominato, nonostante fosse maggiore dell’esercito) non si limita a concludere il gioco: arretra per rifinirlo, sale in cattedra impugnando con autorità la bacchetta del comando, orchestrando e guidando l’intera manovra. Vessillo di due dei più meravigliosi complessi di tutte le epoche, la Honved/Grande Ungheria negli Anni ’50 e il Grande Real negli Anni ’60. Il modulo dell’Ungheria al suo interno presenta pure i germi della Diagonal sudamericana, che parte dal mediano destro Bozsik e si snoda, tramite il centravanti arretrato Hidegkuti, fino appunto a Puskas, che si inserisce come massimo terminale sulla sinistra.

Un simile portento di talento e innovazione non può che lasciare orme indelebili sulla storia: tra il 4 maggio 1950 (sconfitta in Austria per 5-3) e la rivoluzione di Budapest del 4 novembre 1956 che reprime nel sangue la libertà del popolo e cancella l’ “Aranycsapat”, l’Ungheria non conosce che vittorie, tranne qualche sparutissimo pareggio, e una sola sconfitta nel giorno però più importante: la finale del Mondiale ’54 contro una Germania alterata chimicamente. In modo particolare, dal 4 maggio 1950 al 4 luglio ’54 (giorno del ko con i tedeschi) nel periodo di massima espansione, i magiari inanellano una striscia di imbattibilità assurda: 32 partite, 29 vittorie e 3 pareggi, con 143 gol fatti e 33 subiti. Anche l’Italia si inchina a un prodigio così straordinario: avviene allo stadio Olimpico, il 17 maggio 1953. Gli ungheresi non vincono sul suolo italiano da 28 anni, quel giorno dominano dall’inizio alla fine, con un 3-0 persino stretto e la standing ovation di tutti gli spettatori, alzatisi in piedi ad applaudire al termine della partita.

Ma l’impresa che fa epoca è soprattutto quella di Wembley del 25 novembre 1953. Invitati a misurarsi al cospetto degli inglesi, ancora considerati maestri nonostante l’umiliazione del Mondiale ’50 (fuori al primo turno per mano degli Stati Uniti) e un calcio oramai vecchio e insensibile alle novità che spirano dal continente e dal Sud America, gli ungheresi sanno di non poter fallire. Nessuno, in oltre 90 anni di calcio, ha mai vinto sul suolo britannico. Più che da una superiorità tecnica, il motivo deriva dalla maniacale cura con cui i padroni di casa preparano le partite: sempre su terreni duri e durante stagioni fredde, due aspetti che rendono l’aria più rarefatta e il gioco più chiuso e agonistico. Aspetti che esaltano la scorza atletica dei britannici e alla lunga prosciugano l’ossigeno e la maggiore mobilità tecnica degli ospiti.

Sebes però non lascia nulla al caso: all’inizio di novembre si reca a Wembley per assistere a Inghilterra-Resto d’Europa, finito 4-4. Si accorge subito delle differenze climatiche e del pesantore del campo, con il pallone che non rimbalza mai più di mezzo metro. Il mattino seguente, si reca di persona a Wembley e prova a calciare e muoversi in quel terreno. Si fa regalare da un amico tre palloni di marca inglese, torna a Budapest, fa allargare un campo di allenamento per raggiungere le misure (110x70) di Wembley e lo concima con materiali duri, in modo da somigliare il più possibile ai campi inglesi.

I campioni olimpici si presentano alla sfida forti di allenamenti specifici e seppelliscono gli increduli padroni di casa sotto una valanga di reti (6-3), fornendo una lezione di calcio anche sul piano del gioco. Hidegkuti, da centravanti arretrato, attira il povero stopper inglese in una trappola, favorendo gli inserimenti delle mezzali. E’ lui il grande protagonista, con una tripletta fantastica, tra cui spicca un eurogol da 30 metri con il pallone tesissimo che conclude la sua corsa nel sette.

Puskas, quindi. Il “colonnello” sigla una doppietta, con un gol da cineteca. Lancio da 40 metri di Bozsik, al solito preciso al millimetro, Puskas scatta sul lato destro dell’area piccola ma riceve la palla al volo sul piede sbagliato, il destro. Senza lasciare che il pallone tocchi terra, alza il pallone e supera con un morbido pallonetto lo stopper inglese (il grande Billy Wright, non un brocco qualunque...), quindi sempre di prima intenzione raccoglie al volo la palla con il sinistro e la scaraventa in rete nell’angolo alto opposto. L’Empire Stadium è stregato, si alza in piedi ad applaudire, inchinandosi a tanta bellezza. Bozsik chiude la girandola con il sesto sigillo. Ancora più stupefacente, la “rivincita” che si consuma il 23 maggio 1954, all’approssimarsi dei campionati del Mondo svizzeri, a Budapest: finisce 7-1 per l’Ungheria, doppietta di Puskas, doppietta di Kocsis, una rete a testa per Lantos, Hidegkuti e Toth.

Il Mondiale del ‘54, forse il più grande della storia come contenuti tecnici, si presenta con l’Ungheria quale favorita indiscussa, accompagnata da altre due nazionali fantastiche: l’Uruguay campione in carica di Varela e Schiaffino, e il Brasile di Julinho e dei due Santos. La squadra di Sebes inizia subito da par suo asfaltando la cenerentola Corea del Sud per 9-0. Il copione si ripete nel secondo match del girone, vinto contro la Germania Ovest per 8-3. Il ct tedesco Sepp Herberger si dimostra nell’occasione un astuto volpone: manda in campo molte riserve e ordina ai suoi di picchiare sistematicamente Puskas. Il centromediano Liebrich riesce nella missione di azzopparlo e renderlo indisponibile per il proseguio del torneo. Nei quarti, l’Ungheria affronta il Brasile: una battaglia con rissa incorporata e Puskas che, seduto in panchina dopo l’infortunio, riceve una bottiglia in testa.

I magiari la spuntano per 4-2 e in semifinale attendono l’Uruguay iridato. Sotto una pioggia incessante, su un terreno che si trasforma ben presto in fanghiglia appiccicosa, i ragazzi di Sebes si portano avanti 2-0 grazie ai gol di Hidegkuti e Lantos. Nell’Uruguay esce infortunato il capitano Varela, sostituito nel ruolo e nelle mansioni da un ispirato Schiaffino. Il Pepe guida i suoi con il piglio del leader, Haahberg recupera i due gol di svantaggio e Schiaffino fallisce di un niente la terza rete. Nei supplementari le due squadre accusano presto la stanchezza, ma gli ungheresi possono giocare anche la carta aerea con Kocsis, che infatti realizza di testa le due reti che dischiudono le porte della finale di Berna. Per Gianni Brera, Ungheria-Uruguay è stata la partita più bella nella storia dei Mondiali.

Stremati e menomati dalle durissime lotte nei quarti e in semifinale, i magiari arrivano all’atto conclusivo non al meglio. Dall’altra parte, invece, i tedeschi dell’Ovest, giunti a sorpresa in finale, hanno affrontato un calendario molto più agevole, eliminando una non irresistibile Jugoslavia e la declinante Austria. Torna in campo Puskas, anche se risente ancora dei postumi dell’infortunio. Il capitano parte a tutta, al 6’ realizza l’1-0 poi favorisce il raddoppio di Czibor all’8’. Sembra la solita passeggiata di reti ma a quel punto l’ “Aranycsapat”, esausta, crolla. Morlock accorcia al 10’, quindi Rahn infila il 2-2 al 18’. L’Ungheria riprende coraggio, attacca a testa bassa ma non riesce a essere lucida come al solito in fase di tiro. Il portiere tedesco Turek è il migliore in campo, più per errori di mira degli avversari che per meriti propri. All’84’, in seguito a una delle poche sortite offensive della squadra teutonica, Fritz Walter, unico campione vero della Germania, ruba palla a Bozsik e serve in profondità il veloce Rahn: l’ala destra si infila nelle maglie della difesa e con un diagonale batte Grosics. Il gol lascia tutti increduli, l’Ungheria, imbattuta da quattro anni e mezzo, è sotto a una manciata di minuti dal termine. I magiari ricominciano ad attaccare, Puskas segna ma l’arbitro inglese Ling inspiegabilmente annulla. Finisce così, con il più pazzesco e imprevedibile degli esiti. Il telecronista tedesco comunica alla radio di stato: Signori, benché vi sembri incredibile, la Germania è campione del Mondo.

Il regime non perdona a Sebes la sconfitta, i tifosi al ritorno incendiano l’abitazione del tecnico, la stampa gli rende la vita impossibile con accuse premeditate e prive di fondamento. Sebes rifiuta le dimissioni, poi nell’estate del ’56 viene esonerato. Nell’autunno dello stesso anno, il popolo ungherese, schiacciato dal fardello di un comunismo disumano, si ribella in cerca della libertà. La Honved, che costituisce l’ossatura della Nazionale, si trova in tournée all’esterno e molti scelgono di non rientrare. La federazione ungherese squalifica i fuggiaschi, la Fifa per non incendiare il già teso rapporto politico tra Occidente e Oriente, accoglie la richiesta. Ma la Spagna franchista, che non intrattiene rapporti né con l’uno né con l’altro blocco, passa sopra e dà il benvenuto ai reprobi: Czibor e Kocsis vanno a rinforzare il Barcellona, Puskas il Real Madrid. Nel frattempo, il 4 novembre i carri armati sovietici fanno il loro ingresso a Budapest e soffocano la rivolta. Si chiude così, in un lago di sangue, l’epopea dell’ “Aranycsapat”, la più meravigliosa orchestra che abbia mai suonato su un campo di calcio. Neanche la più atroce delle conclusioni però potrà mai scalfire il ricordo di una leggenda


Top
 Profilo  
 
 Oggetto del messaggio: Re: L'evoluzione del Calcio Totale
MessaggioInviato: ven 18 ott 2013, 12:31 
Non connesso
Moderatore
Moderatore
Avatar utente

Reg. il: dom 10 apr 2005
Alle ore: 14:02
Messaggi: 7175
IL RIVER PLATE DELLA “MAQUINA”

Come detto, il modulo a “Diagonal” si diffonde a macchia d’olio in tutto il Sud America. Le uniche variazioni riguardano il settore difensivo, come capita ad esempio in Argentina, dove è il settore destro (terzino e mediano) a ruotare con il centromediano e non quello mancino. Nel Paese delle Pampas nel corso degli Anni ’40 si forma una squadra dal potenziale offensivo leggendario, senza rivali forse nella storia, come somma di talento e bravura. È il River Plate che passa agli annali come “Maquina” perché l’attacco quando si mette in moto, sembra una macchina senza punti deboli, talmente perfetta da sembrare sovrumana.

La difesa è di normale livello (il portiere Yacomo, i terzini Vaghi e Ramos, il centromediano Ferreyra e il mediano sinistro Barrios), il contrario di una prima linea devastante. A destra staziona l’eclettico Munoz; a sinistra “Chaplin” Loustau, dotato di finte ubriacanti e un dribbling mortifero. In mezzo, la “Diagonal”, copia di quella ungherese e brasiliana, da destra a sinistra: il vertice arretrato è “El Charro” Moreno. Leader, riferimento tattico, provvisto di un bagaglio tecnico pressoché sconfinato, è ritenuto il più forte giocatore argentino dopo Di Stefano e Maradona. Il centravanti arretrato è Pedernera, detto “El Maestro”, goleador di rara efficacia, elegantissimo nei movimenti quanto dotatissimo sul piano intellettivo e della velocità senza palla. La mezzala sinistra che chiude la “Diagonal” è “El Feo” Miguel Angel Labruna, un’altra icona leggendaria del calcio albiceleste.

La versatilità e la completezza tecnica permettono ai cinque movimenti e scambi continui, una sorta di “attacco totale” senza ruoli fissi che sconvolge gli avversari e regala grappoli di reti e spettacolo. I risultati sono fantastici: quattro titoli argentini (1941, 42, 45 e 47) e la Coppa America del ’47, di cui la Maquina (nel frattempo al posto di Pedernera, è spuntato il ventenne funambolo Di Stefano) costituisce l’ossatura. Lo sciopero e la crisi economica disperdono quella meravigliosa macchina di calcio dall’attacco atomico.


Top
 Profilo  
 
 Oggetto del messaggio: Re: L'evoluzione del Calcio Totale
MessaggioInviato: ven 18 ott 2013, 12:32 
Non connesso
Moderatore
Moderatore
Avatar utente

Reg. il: dom 10 apr 2005
Alle ore: 14:02
Messaggi: 7175
L'OLANDA DEL CALCIO TOTALE

Rivoluzione e anticonformismo, capelli lunghi e vestiti larghi, Woodstock e marijuana. In una parola, gli Anni ‘70. Il Mondo è capovolto: musica, politica, società, arte. Non c’è un aspetto della vita umana che non conosca cambiamenti radicali. Nel calcio il simbolo della novità è l’Olanda. Una squadra magnifica, ideale sintesi delle due massime espressioni di club. Il Feyenoord, apripista dei trionfi con il successo nella Coppa Campioni ’70, e il grande Ajax, tre volte consecutive sul tetto d’Europa, dal ’71 al ’73. Gli Ajacidi in particolare sono i vessilliferi di un calcio modernissimo, che ha abrogato le specifiche di ruolo e si basa su una preparazione atletica superiore, sistematica, con sedute di allenamento massacranti, corse lunghe chilometri, scatti e controscatti tra pianure e colline.

I giocatori poi non sono più semplici protagonisti sul campo. Si spostano in ritiro con fidanzate e mogli al seguito, vestono alla moda, portano i capelli al vento, concedono interviste solo a pagamento, si fanno sponsor, vendendo gli articoli di cui sono i proprietari (dalle magliette ai palloni) e mettendo la loro faccia sui prodotti pubblicitari. Fuori dal campo, la più grande rivoluzione culturale applicata al calcio, con i calciatori che diventano divi di Hollywood, macchine per fare soldi, attori strapagati di un circuito chiuso e inaccessibile.

In campo, di rivoluzionario c’è molto meno di quello che comunemente si pensa. Il “calcio totale” privo di ruoli fissi e con sovrapposizioni continue e movimenti costanti senza palla è di ispirazione danubiana e gli ungheresi 20 anni prima lo hanno già confezionato, pronto per l’uso; la zona è concetto vecchio come il Mondo; una preparazione atletica avanti alla propria epoca per inchiodare gli avversari sul ritmo era già stata applicata da Erbstein nel Grande Torino del dopoguerra.

Di certo, gli olandesi tracciano il solco: dopo di loro, il calcio diventa atletismo, fisicità, senso del collettivo, e tale resta per una decina d’anni prima che un argentino di 160 cm riporti l’individuo al centro dell’universo, come in una vera e propria rivoluzione copernicana al contrario, vincendo un Mondiale da solo. Resta la qualità assoluta di una generazione fantastica, che ha nel divino Johan Cruyff, per molti il più grande calciatore europeo di tutte le epoche, il suo zenith.

Rinus Michels, tecnico dell’Olanda in vista del Mondiale ’74, assembla così una squadra su due blocchi, Ajax e Feyenoord, come già aveva fatto Sebes con l’Ungheria (Honved più Voros Lobogo). Ecco come si presenta l’Olanda ’74, fedele nello schieramento iniziale al 4-3-3, il modulo che forse meglio di qualunque altro si adatta ai meccanismi della zona, e con i giocatori che smettono di seguire la numerazione classica delle maglie dall’1 all’11 ma scelgono i numeri che più a loro piacciono.

In porta Jongbloed, uno sberleffo ai canoni del ruolo, con l’8 sulla maglia, la divisa gialla (che suscita parecchia ilarità tra pubblico e critica), la tendenza a uscire palla al piede. Tra i pali si dimostra però spesso un discreto estremo a dispetto della negativa fama. In difesa, i punti fissi sono i due centrali, Haan più portato alla costruzione del gioco, e Rijsbergen. A centrocampo, le due pedine basilari sono il regista Van Hanegem, cervello del Feyenoord, detto “il Gobbo” per l’andatura ricurva ma dotato di grande fondo atletico e spiccato senso del gioco. Al suo fianco, lo sgobbone Jansen.

Tutti gli altri giocatori sono in continuo movimento e a turno possono tramutarsi in terzini, ali, mediani, attaccanti. A partire dai terzini nominali, Suurbier a destra e Krol a sinistra, giocatori di grandi mezzi fisici e tecnici, in particolare il secondo, emblema della nuova versatilità dei difensori e capace nel proseguio della carriera di trasformarsi in un superbo libero. In mezzo, il più universale di tutti, Johan Neeskens, che nasce centrocampista ma opera con indifferente bravura in difesa, come mediano, regista, rifinitore e attaccante. L’attacco consta di tre pedine molto mobili: le ali Rep e Rensenbrink che spesso si accentrano per favorire l’avanzata di Suurbier e Krol, e il grandissimo Johan Cruyff. Nato ad Amsterdam, diventa la stella del club ajacide prima di trasferirsi al Barcellona. Simbolo della squadra in campo e fuori, parte attaccante ma poi sguscia tra le pieghe della partita ove più lo portano il talento e le varie situazioni di gioco, sfruttando una tecnica modernissima, una velocità supersonica, un carisma senza pari, un’intelligenza e un senso del gol strepitosi. Un leader a tutto campo che si consacra quale stella assoluta del calcio internazionale.

Il Mondiale ’74 si inchina alla bellezza del gioco orange: sovrapposizioni, velocità, pressing ovunque, una ragnatela di passaggi brevi, un torello continuo e sistematicamente proiettato verso la porta avversaria. Uruguay, Bulgaria, Argentina, Germania Est, Brasile: la lista delle vittime, impotenti di fronte a uno spettacolo così sublime, è lunga.

Si arriva così all’appuntamento più atteso, la finale di Monaco del 7 luglio 1974, tra quelle che sono davvero le migliori nazionali del Mondo: la conservatrice Germania Ovest di Beckenbauer e l’innovatrice Olanda di Cruyff. Alla prima azione di gioco, gli olandesi vanno in porta senza mai far toccar palla ai padroni di casa: Cruyff parte con il suo solito imprendibile stile, Vogts lo atterra. Rigore, puntualmente trasformato da Neeskens. Sembra l’inizio del solito dominio, del solito spettacolo.

Ma la Germania ha qualità e nervi saldi per non crollare. Beckenbauer capisce che non è il caso di salire palla al piede e posizionarsi davanti alla terza linea come d’uopo, ma resta in attesa, alle spalle di tutti a controllare e ragionare con certosina pazienza. I tedeschi non hanno fretta, aspettano e ripartono. Al 25’ ottengono un giusto rigore, e il maoista Breitner fa 1-1 dagli undici metri. L’Olanda ricomincia ad attaccare, in un forcing continuo ma la difesa tedesca, protetta da un magistrale Kaiser Franz e con Vogts che ha messo la museruola alla stella Cruyff, regge l’urto. E al 44’, una percussione a destra di Bonhof è premiata al centro dal guizzo del solito rapace Gerd Muller che si gira in un nanosecondo e fa secco Jongbloed. Nella ripresa la marea orange si fa ancora più impetuosa ma non basta. Alla fine a festeggiare sono i padroni di casa. Meno rivoluzionari, meno portati a spendere energie fisiche e atletiche, ma ugualmente meritevoli del titolo grazie a una qualità di assi di straordinaria levatura.

Il secondo posto ridimensiona in parte il progetto olandese ma i frutti oramai sono gettati sulla scena internazionale. Gli Europei ’76, chiusi al terzo posto, segnano il passo d’addio alla nazionale di Cruyff. Ai successivi campionati del Mondo del ’78, senza più il maestro Johan, l’Olanda arriva ancora seconda alle spalle dell’Argentina padrona di casa ma si rende protagonista di un calcio meno rivoluzionario e spettacolare, anche se sempre con l’imprintur della zona. Un’ulteriore conferma che è il valore dei singoli (in questo caso, è venuto a mancare Il Singolo per eccellenza, Cruyff) a rendere spettacolare e forte una squadra ed efficace un modulo. Perché è la qualità dei solisti la vera arma che ha permesso al movimento olandese di vincere 4 Coppe Campioni consecutive e arrivare a un passo dal doppio trionfo Mondiale. Anche se molti, soprattutto in Italia, non riescono sulle prime a capirlo.


Top
 Profilo  
 
 Oggetto del messaggio: Re: L'evoluzione del Calcio Totale
MessaggioInviato: ven 18 ott 2013, 12:32 
Non connesso
Moderatore
Moderatore
Avatar utente

Reg. il: dom 10 apr 2005
Alle ore: 14:02
Messaggi: 7175
IL MILAN DI SACCHI



Quando, nell’estate del 1987, Arrigo Sacchi arriva al Milan, è poco più di uno sconosciuto. Lo ha voluto fortissimamente il novello presidente rossonero Silvio Berlusconi, stregato da una partita di Coppa Italia in cui il Parma, allenato dal tecnico di Fusignano, ha messo sotto il Milan. Molti tifosi sulle prime storcono il naso, memori dell’esperienza di Marchioro, che sembra ricalcare in tutto e per tutto quella di Sacchi: tecnico emergente, presidente da poco insediato nella società, progetto tattico di rottura con la tradizione italiana.

Le difficoltà iniziali sembrano confermare l’ipotesi: i rossoneri vengono precocemente eliminati in Coppa Uefa per mano dell’Espanyol, gli allenamenti massacranti con esercizi ripetuti alla noia e carichi di lavoro durissimi fanno crescere il malumore delle stelle, in modo particolare i neo arrivati Gullit e Van Basten. Franco Baresi, poi, capitano della squadra e ritenuto uno dei migliori difensori del campionato, viene invitato dal tecnico a seguire il modo di giocare di Gianluca Signorini, libero sui generis del Parma di Sacchi. La fiducia di Berlusconi però pare illimitata e quando il tecnico decide finalmente di accantonare gli operai Mussi, Bianchi e Bortoluzzi e investire sui campioni, il Milan prende una fisionomia definitiva e comincia a volare.

Il vestito tattico è il solito 4-3-3 che splendidamente si abbina con la zona tout-court (come già è stato per Olanda e Roma): davanti al portiere Giovanni Galli, la difesa prevede gli esterni Tassotti e Maldini, bravi sia a chiudere che ad avanzare, potendo contare su una notevole spinta atletica. La classe, il tempismo, la versatilità, il senso del comando daranno modo inoltre al giovanissimo Maldini di sperimentarsi in diverse posizioni all’interno della retroguardia e consacrarsi quale uno dei migliori (se non il migliore) difensore dell’ultimo scorcio di secolo. In mezzo, l’aitante Filippo Galli protegge le spalle al capitano Franco Baresi, elemento capace di manovrare l’intero pacchetto con il piglio del leader, seguendo le linee direttive di un fuorigioco sistematico, e replicare la lezione di altri grandi liberi che prima di lui erano abituati a giocare in una difesa a 4 in linea: non il pur onesto Signorini, ma campioni del ruolo quali Moore, Haan, Di Bartolomei.

Sulla mediana, il regista Ancelotti, già avvezzo alle lezioni zoniste di Liedholm, è il fulcro attorno al quale si muovono a destra Colombo e a sinistra Evani. L’attacco si avvale dell’irruenza atletica dell’olandese volante Ruud Gullit, del tornante di destra Donadoni, ala di raffinatissime e completissime doti tecniche, e del centravanti Virdis, sostituto dell’infortunato Van Basten.

Quando nel finale di stagione, l’airone olandese torna al suo posto, i rossoneri acquistano nuova linfa e riescono a superare il Napoli del divino Maradona sul filo di lana, aggiudicandosi lo scudetto. Nelle due successive stagioni, pur non ripetendosi sul fronte interno, il Milan (potenziato dall’arrivo del mediano tuttofare Rijkaard) fa il vuoto all’estero: due Coppe Campioni e due Coppe Intercontinentali. Con alcune prestazioni che passano alla leggenda, come il 5-0 rifilato al Real Madrid nelle semifinali dell’edizione ’88-’89 o il 4-0 alla Steaua Bucarest nella finalissima.

Il Milan basa la propria forza sulla ferrea preparazione atletica cui accennavo prima. Il gioco si sviluppa intorno a un pressing costante sui portatori avversari, i giocatori senza palla devono sempre dettare il passaggio al compagno e aggredire gli spazi vuoti, mentre la difesa, guidata da capitan Baresi, opera con grande sistematicità la tattica del fuorigioco. Nulla di nuovo sotto il sole, dato che sembra di leggere per filo e per segno il disegno della Grande Ungheria di 40 anni addietro.

La novità principale che Sacchi lascia in eredità al calcio italiano è legata all’atteggiamento da adottare in campo internazionale: seguendo un antico retaggio della nostra tradizione, le squadre italiane erano solite cambiare mentalità a seconda del fattore campo: più offensive e intraprendenti in casa, più difensive e contropiediste fuori. Il Milan di Sacchi invece gioca un calcio di iniziativa ovunque, non preoccupandosi di dove e contro chi gioca. Molte formazioni, su tutte il Parma e la Sampdoria, raccolgono la lezione dell’Arrigo, acquistando grande sicurezza e spregiudicatezza sul suolo europeo e guadagnandosi i complimenti da molti addetti ai lavori internazionali.

I problemi per Sacchi montano nella sua quarta stagione in rossonero che si conclude senza allori. Entra in rotta di collisione con i senatori dello spogliatoio, perché finisce con il trascurare l’aspetto umano. Pretende sempre la massima serietà, odia le battute e i sorrisi, continua a mettere sotto torchio a livello di preparazione campioni che stanno oramai avviandosi alla trentina e non hanno più l’entusiasmo, la voglia, le potenzialità fisiche di sottoporsi a carichi di lavoro troppo pesanti. Van Basten, stella assoluta della squadra, guida la rivolta. E come fece Sivori con Amaral e Heriberto, si presenta dal presidente Berlusconi con l’ultimatum: o lui o io. Il presidente sceglie la sua stella e “dirotta” Sacchi in Nazionale.

L’Arrighe si fa sempre più insofferente, si prende meriti che non ha, comincia a ritenersi il presunto salvatore del calcio italiano dagli orrori del difensivismo e il principale artefice dei successi rossoneri. Lo schema diventa dominante sul valore dei singoli. Le esagerazioni verbali e comportamentali si ripercuotono con effetti negativi sul campo, dove tutto, dalla preparazione atletica alla tattica del fuorigioco, viene esasperato.

Sacchi dimentica in pratica le due regole che hanno sempre accompagnato il calcio fin dalle origini: 1) è il valore dei giocatori e non il modulo a garantire il successo di un progetto; 2) la grandezza di un allenatore e di una squadra stanno nella flessibilità e nel relativismo, nella capacità cioè di sommare i pregi di varie filosofie tattiche, anche all’apparenza opposte tra loro, e non estremizzare troppo un singolo aspetto a tutto svantaggio degli altri. Un peccato perché così facendo il progetto rossonero annacqua forse prima del dovuto e perché si tratta di un grande competente e maestro di calcio, non di un pisquano qualunque


Top
 Profilo  
 
 Oggetto del messaggio: Re: L'evoluzione del Calcio Totale
MessaggioInviato: ven 18 ott 2013, 13:33 
Due maestri, anche Marco strepitoso in questi pezzi. Ne ho letti alcuni, molte cose le conoscevo ma altre no, complimentoni.
Mi aspetto un pezzo sull'ultimo Barça per chiudere il cerchio delle squadre belle e a volte possibili.


Top
  
 
 Oggetto del messaggio: Re: L'evoluzione del Calcio Totale
MessaggioInviato: ven 18 ott 2013, 17:52 
Non connesso
Campione Olimpico
Campione Olimpico
Avatar utente

Reg. il: ven 23 nov 2012
Alle ore: 11:00
Messaggi: 7439
Io mi sono fermato all'Ajax perchè considero gli olandesi gli ultimi veri innovatori del calcio, anche se il Barcellona mi sta facendo ricredere su alcune cose...


Top
 Profilo  
 
Visualizza ultimi messaggi:  Ordina per  
Apri un nuovo argomento Rispondi all’argomento  [ 34 messaggi ]  Vai alla pagina 1, 2, 3, 4  Prossimo

Risposta Rapida
Titolo:
Messaggio:
 

Tutti gli orari sono UTC + 1 ora [ ora legale ]


Chi c’è in linea

Visitano il forum: Nessuno e 23 ospiti


Non puoi aprire nuovi argomenti
Non puoi rispondere negli argomenti
Non puoi modificare i tuoi messaggi
Non puoi cancellare i tuoi messaggi
Non puoi inviare allegati

Cerca per:
Vai a:  
Powered by phpBB® Forum Software © phpBB Group
Traduzione Italiana phpBBItalia.net basata su phpBB.it 2010