LA GRANDE UNGHERIA
E’ forse la più grande squadra di calcio di tutti i tempi, e non può essere altrimenti visto che nel progetto dell’ “Aranycsapat” (squadra d’oro) si mescolano un concentrato di rivoluzioni epocali sul piano tattico e dell’idea di squadra con una qualità offensiva dei singoli sbalorditiva, senza paragoni. Allenatore, maestro e guida della squadra è Gusztav Sebes, ex centromediano di buon livello, diventato ct della Nazionale nel 1949. L’eleganza e la grazia dell’impero asburgico sono oramai un lontano ricordo, e così pure il calcio danubiano che tanto aveva spopolato prima del conflitto, pare entrato in un irreversibile declino.
Ma dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale cresce nella piccola patria magiara una fioritura di talenti unici, di quelle che di solito si verificano in un Paese una volta ogni 100 anni. La nuova svolta comunista impone alle squadre di calcio un collegamento diretto con le aziende statali e i corpi istituzionali: dalla Kispest nasce così la Honved, la squadra dell’esercito che in italiano significa “Difesa della patria”. Una formazione nella quale in pochissimo tempo vengono fatti confluire i migliori giocatori del Paese, in modo da formare una sorta di invincibile armata. La Honved vince quattro scudetti (’50, ’52, ’54 e ’55) prima dell’invasione di Budapest del ’56 che provoca la fuga dei componenti di quel Dream Team nei campionati occidentali. Sebes forgia l’Ungheria intorno al blocco della Honved, ai quali aggiunge qualche elemento dell’altra squadra dominante del Paese, il Voros Lobogo (ex Mtk).
Con certosina pazienza il tecnico plasma così una Nazionale senza rivali al Mondo, ma con un punto debole: l’attacco. Il più forte centravanti del calcio magiaro, il grande Bamba Deak, capace di segnare ben 66 reti nel campionato 1945-46, entra in conflitto con i vertici comunisti ed è costretto così a lasciare la Nazionale. Lo sostituisce Palotas, altro giocatore di squisite proprietà tecniche, ma non in linea con le idee di Sebes. L’allenatore magiaro ha infatti in mente una correzione tattica per meglio assecondare il valore degli interpreti.
Disponendo di due interni dalle eccezionali medie realizzative, quali Kocsis e Puskas, più inclini al ruolo di mezzali metodiste che sistemiste, l’allenatore cambia la disposizione offensiva: l’attacco non disegna più una W, ma una M con i due interni avanzati rispetto alle due ali e al centravanti. Con il nuovo modulo a WM, è necessario trovare un centravanti che non sia tanto e solo un terminale, quanto un tessitore dell’intera manovra. Sebes individua questo anello mancante in Nandor Hidegkuti, all’epoca ala del Voros Lobogo. L’allenatore prova in svariate amichevole Hidegkuti quale vertice arretrato della M offensiva, ma sempre senza i risultati sperati. Il valore del giocatore non si discute, come dimostrano le prestazioni fantastiche con il club. Sebes capisce ben presto che il problema è psicologico: Hidegkuti soffre troppo la pressione quando si trova a vestire la maglia dell’Ungheria e non riesce a rendere come il suo talento imporrebbe. A pochi mesi dai Giochi Olimpici del ’52, la nazionale affronta a Varsavia in un doppio probante test-match Polonia e Finlandia. Improrogabili impegni vietano a Sebes di prendere parte alla trasferta.
L’allenatore anticipa la formazione, con Palotas centravanti titolare tra le mezzali Kocsis e Puskas. Affida quindi al vice Gyula Mandi e a Ferenc Puskas una busta contenente una lettera, ordinando ai due di aprirla solo poco prima del fischio iniziale. Sulla busta c’è scritto: centravanti al posto di Palotas, giocherà Hidegkuti. Il nostro, già in tribuna, viene chiamato in tutta fretta negli spogliatoi, si cambia ed entra in campo. L’Ungheria asfalta i polacchi 5-1, Hidegkuti segna due reti ed è il migliore in campo. Il segreto di un così sconvolgente cambiamento di rendimento? Lo spiega lo stesso Hidegkuti: La sera prima mi sono coricato tranquillo, convinto di non giocare, e ho dormito sereno senza pressioni né paure.
Sebes ha trovato il tassello mancante, Hidegkuti ha vinto la paura: l’Ungheria può finalmente riversare sul resto del pianeta il proprio prodigioso arsenale di fuoco. Le Olimpiadi di Helsinki si fanno testimoni di una squadra che vince l’oro a redini basse, incantando pubblico e addetti ai lavori con un calcio mai visto, sublimato dall’estro di interpreti meravigliosi. Un calcio dove il talento, la tattica, il movimento, l’idea di squadra raggiungono vette inesplorate.
I calciatori ungheresi giocano a memoria, sono capaci di capovolgere il fronte del gioco con 3 passaggi in verticale, come di avvicinarsi gradatamente alla porta avversaria attraverso una manovra intessuta di 15-20 passaggi, tutti palla a terra, tutti o quasi tutti di prima. Un tourbillon magistrale che stordisce qualsiasi avversario, incentrato su un movimento continuo da parte di tutti i giocatori, sia in fase di possesso che di non possesso palla, su fuorigiochi continui, su sovrapposizioni costanti. Il pallone viene lanciato negli spazi vuoti, in modo da obbligare il compagno a correre per andare a ricevere il passaggio. Un meccanismo sconvolgente, dato che fino ad allora il giocatore era solito rimanere fermo, in attesa del lancio, e non era assolutamente abituato allo scatto, tantopiù così sistematico. Vittorio Pozzo, due volte campione del Mondo con l’Italia, dichiara di non aver mai visto un calcio così spettacolare, la rivista tedesca Kicker scrive che 90 minuti sono troppo pochi per assistere a un simile prodigio.
L’Ungheria diventa la stella d’Europa, vessillifera di un football nuovo, che vent’anni dopo sarebbe stato etichettato come “totale”. Ma quello in realtà è calcio nella sua accezione più pura e semplice. Perché per quanto appaia così ricco, variegato e impossibile da replicare, nasce dalle coordinate del talento più straordinario, dell’estro del singolo, del divertimento. Dietro alle nostre vittorie non ci sono molti segreti, dichiara un giorno Puskas. Giochiamo per il piacere di farlo, tatticamente non esistono soluzioni particolarmente innovative. La filosofia è quella, semplicissima, di buttare la palla in fondo al sacco, sempre e comunque.
Al suo massimo, l’Ungheria presenta Gyula Grosics, uno dei più forti portieri di tutti i tempi, tra i pali. In difesa, a destra opera il pendolino Buzansky, vero e proprio terzino fluidificante, tecnicamente valido ma non eccelso, però dotato di abilità agonistiche e atletiche straordinarie, che gli consentono di avanzare fino al capolinea della fascia. Il centromediano sistemista è il possente Lorant, con a sinistra Lantos, altro terzino d’attacco nelle giornate di vena. In mezzo al campo, Zakarias è il mediano sinistro e svolge un prezioso lavoro oscuro.
Sul fronte destro, il leggendario Bozsik, considerato il più grande mediano di tutte le epoche, immenso direttore d’orchestra, capace di cancellare dal campo la più pericolosa delle mezzali avversarie come di azionare le impareggiabili bocche da fuoco dell’attacco, con lanci da 70 metri precisi al millimetro o con pennellate di nitidissima classe. La prima linea vede Budai II (in alternativa Toth) finta ala destra, dato che ha la tendenza ad accentrarsi e dare manforte al centrocampo. Sul versante sinistro, opera invece l’ “uccello pazzo” Zoltan Czibor, campionissimo del ruolo, in grado di partire verso la porta avversaria con finte ubriacanti o scoccare micidiali conclusioni dal limite dell’area. In mezzo, a dirigere il traffico, il già citato Nandor Hidegkuti, che non dimentica affatto come si fa a segnare (68 partite e 39 reti in Nazionale) ma veste più spesso i panni del rifinitore, sfruttando doti straordinarie di assist-man e costruttore del gioco.
I due interni avanzati, in pratica delle mezzali metodiste, Sandor Kocsis e Ferenc Puskas, rappresentano una coppia offensiva di insuperabile efficacia. Il primo, detto “testina d’oro” è probabilmente il più forte colpitore di testa di ogni tempo. Sbalorditiva la sua media gol in Nazionale, con 75 reti in 68 presenze, si laurea capo-cannoniere al Mondiale ’54 quando in 5 gare mette a segno la bellezza di 11 gol. Sul centro-sinistra la stella assoluta e icona del calcio ungherese, Ferenc Puskas, che in un’ideale graduatoria dei migliori calciatori di ogni tempo occuperebbe di certo una delle primissime posizioni. Il sinistro sembra forgiato dalla grazia del Signore, la forza fisica è dirompente, la capacità realizzativa non ha eguali (84 gol in 83 partite in Nazionale, 1328 in carriera), il dribbling secco e micidiale, la tecnica modernissima. Ma il colonnello (così soprannominato, nonostante fosse maggiore dell’esercito) non si limita a concludere il gioco: arretra per rifinirlo, sale in cattedra impugnando con autorità la bacchetta del comando, orchestrando e guidando l’intera manovra. Vessillo di due dei più meravigliosi complessi di tutte le epoche, la Honved/Grande Ungheria negli Anni ’50 e il Grande Real negli Anni ’60. Il modulo dell’Ungheria al suo interno presenta pure i germi della Diagonal sudamericana, che parte dal mediano destro Bozsik e si snoda, tramite il centravanti arretrato Hidegkuti, fino appunto a Puskas, che si inserisce come massimo terminale sulla sinistra.
Un simile portento di talento e innovazione non può che lasciare orme indelebili sulla storia: tra il 4 maggio 1950 (sconfitta in Austria per 5-3) e la rivoluzione di Budapest del 4 novembre 1956 che reprime nel sangue la libertà del popolo e cancella l’ “Aranycsapat”, l’Ungheria non conosce che vittorie, tranne qualche sparutissimo pareggio, e una sola sconfitta nel giorno però più importante: la finale del Mondiale ’54 contro una Germania alterata chimicamente. In modo particolare, dal 4 maggio 1950 al 4 luglio ’54 (giorno del ko con i tedeschi) nel periodo di massima espansione, i magiari inanellano una striscia di imbattibilità assurda: 32 partite, 29 vittorie e 3 pareggi, con 143 gol fatti e 33 subiti. Anche l’Italia si inchina a un prodigio così straordinario: avviene allo stadio Olimpico, il 17 maggio 1953. Gli ungheresi non vincono sul suolo italiano da 28 anni, quel giorno dominano dall’inizio alla fine, con un 3-0 persino stretto e la standing ovation di tutti gli spettatori, alzatisi in piedi ad applaudire al termine della partita.
Ma l’impresa che fa epoca è soprattutto quella di Wembley del 25 novembre 1953. Invitati a misurarsi al cospetto degli inglesi, ancora considerati maestri nonostante l’umiliazione del Mondiale ’50 (fuori al primo turno per mano degli Stati Uniti) e un calcio oramai vecchio e insensibile alle novità che spirano dal continente e dal Sud America, gli ungheresi sanno di non poter fallire. Nessuno, in oltre 90 anni di calcio, ha mai vinto sul suolo britannico. Più che da una superiorità tecnica, il motivo deriva dalla maniacale cura con cui i padroni di casa preparano le partite: sempre su terreni duri e durante stagioni fredde, due aspetti che rendono l’aria più rarefatta e il gioco più chiuso e agonistico. Aspetti che esaltano la scorza atletica dei britannici e alla lunga prosciugano l’ossigeno e la maggiore mobilità tecnica degli ospiti.
Sebes però non lascia nulla al caso: all’inizio di novembre si reca a Wembley per assistere a Inghilterra-Resto d’Europa, finito 4-4. Si accorge subito delle differenze climatiche e del pesantore del campo, con il pallone che non rimbalza mai più di mezzo metro. Il mattino seguente, si reca di persona a Wembley e prova a calciare e muoversi in quel terreno. Si fa regalare da un amico tre palloni di marca inglese, torna a Budapest, fa allargare un campo di allenamento per raggiungere le misure (110x70) di Wembley e lo concima con materiali duri, in modo da somigliare il più possibile ai campi inglesi.
I campioni olimpici si presentano alla sfida forti di allenamenti specifici e seppelliscono gli increduli padroni di casa sotto una valanga di reti (6-3), fornendo una lezione di calcio anche sul piano del gioco. Hidegkuti, da centravanti arretrato, attira il povero stopper inglese in una trappola, favorendo gli inserimenti delle mezzali. E’ lui il grande protagonista, con una tripletta fantastica, tra cui spicca un eurogol da 30 metri con il pallone tesissimo che conclude la sua corsa nel sette.
Puskas, quindi. Il “colonnello” sigla una doppietta, con un gol da cineteca. Lancio da 40 metri di Bozsik, al solito preciso al millimetro, Puskas scatta sul lato destro dell’area piccola ma riceve la palla al volo sul piede sbagliato, il destro. Senza lasciare che il pallone tocchi terra, alza il pallone e supera con un morbido pallonetto lo stopper inglese (il grande Billy Wright, non un brocco qualunque...), quindi sempre di prima intenzione raccoglie al volo la palla con il sinistro e la scaraventa in rete nell’angolo alto opposto. L’Empire Stadium è stregato, si alza in piedi ad applaudire, inchinandosi a tanta bellezza. Bozsik chiude la girandola con il sesto sigillo. Ancora più stupefacente, la “rivincita” che si consuma il 23 maggio 1954, all’approssimarsi dei campionati del Mondo svizzeri, a Budapest: finisce 7-1 per l’Ungheria, doppietta di Puskas, doppietta di Kocsis, una rete a testa per Lantos, Hidegkuti e Toth.
Il Mondiale del ‘54, forse il più grande della storia come contenuti tecnici, si presenta con l’Ungheria quale favorita indiscussa, accompagnata da altre due nazionali fantastiche: l’Uruguay campione in carica di Varela e Schiaffino, e il Brasile di Julinho e dei due Santos. La squadra di Sebes inizia subito da par suo asfaltando la cenerentola Corea del Sud per 9-0. Il copione si ripete nel secondo match del girone, vinto contro la Germania Ovest per 8-3. Il ct tedesco Sepp Herberger si dimostra nell’occasione un astuto volpone: manda in campo molte riserve e ordina ai suoi di picchiare sistematicamente Puskas. Il centromediano Liebrich riesce nella missione di azzopparlo e renderlo indisponibile per il proseguio del torneo. Nei quarti, l’Ungheria affronta il Brasile: una battaglia con rissa incorporata e Puskas che, seduto in panchina dopo l’infortunio, riceve una bottiglia in testa.
I magiari la spuntano per 4-2 e in semifinale attendono l’Uruguay iridato. Sotto una pioggia incessante, su un terreno che si trasforma ben presto in fanghiglia appiccicosa, i ragazzi di Sebes si portano avanti 2-0 grazie ai gol di Hidegkuti e Lantos. Nell’Uruguay esce infortunato il capitano Varela, sostituito nel ruolo e nelle mansioni da un ispirato Schiaffino. Il Pepe guida i suoi con il piglio del leader, Haahberg recupera i due gol di svantaggio e Schiaffino fallisce di un niente la terza rete. Nei supplementari le due squadre accusano presto la stanchezza, ma gli ungheresi possono giocare anche la carta aerea con Kocsis, che infatti realizza di testa le due reti che dischiudono le porte della finale di Berna. Per Gianni Brera, Ungheria-Uruguay è stata la partita più bella nella storia dei Mondiali.
Stremati e menomati dalle durissime lotte nei quarti e in semifinale, i magiari arrivano all’atto conclusivo non al meglio. Dall’altra parte, invece, i tedeschi dell’Ovest, giunti a sorpresa in finale, hanno affrontato un calendario molto più agevole, eliminando una non irresistibile Jugoslavia e la declinante Austria. Torna in campo Puskas, anche se risente ancora dei postumi dell’infortunio. Il capitano parte a tutta, al 6’ realizza l’1-0 poi favorisce il raddoppio di Czibor all’8’. Sembra la solita passeggiata di reti ma a quel punto l’ “Aranycsapat”, esausta, crolla. Morlock accorcia al 10’, quindi Rahn infila il 2-2 al 18’. L’Ungheria riprende coraggio, attacca a testa bassa ma non riesce a essere lucida come al solito in fase di tiro. Il portiere tedesco Turek è il migliore in campo, più per errori di mira degli avversari che per meriti propri. All’84’, in seguito a una delle poche sortite offensive della squadra teutonica, Fritz Walter, unico campione vero della Germania, ruba palla a Bozsik e serve in profondità il veloce Rahn: l’ala destra si infila nelle maglie della difesa e con un diagonale batte Grosics. Il gol lascia tutti increduli, l’Ungheria, imbattuta da quattro anni e mezzo, è sotto a una manciata di minuti dal termine. I magiari ricominciano ad attaccare, Puskas segna ma l’arbitro inglese Ling inspiegabilmente annulla. Finisce così, con il più pazzesco e imprevedibile degli esiti. Il telecronista tedesco comunica alla radio di stato: Signori, benché vi sembri incredibile, la Germania è campione del Mondo.
Il regime non perdona a Sebes la sconfitta, i tifosi al ritorno incendiano l’abitazione del tecnico, la stampa gli rende la vita impossibile con accuse premeditate e prive di fondamento. Sebes rifiuta le dimissioni, poi nell’estate del ’56 viene esonerato. Nell’autunno dello stesso anno, il popolo ungherese, schiacciato dal fardello di un comunismo disumano, si ribella in cerca della libertà. La Honved, che costituisce l’ossatura della Nazionale, si trova in tournée all’esterno e molti scelgono di non rientrare. La federazione ungherese squalifica i fuggiaschi, la Fifa per non incendiare il già teso rapporto politico tra Occidente e Oriente, accoglie la richiesta. Ma la Spagna franchista, che non intrattiene rapporti né con l’uno né con l’altro blocco, passa sopra e dà il benvenuto ai reprobi: Czibor e Kocsis vanno a rinforzare il Barcellona, Puskas il Real Madrid. Nel frattempo, il 4 novembre i carri armati sovietici fanno il loro ingresso a Budapest e soffocano la rivolta. Si chiude così, in un lago di sangue, l’epopea dell’ “Aranycsapat”, la più meravigliosa orchestra che abbia mai suonato su un campo di calcio. Neanche la più atroce delle conclusioni però potrà mai scalfire il ricordo di una leggenda
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