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 Oggetto del messaggio: Graeme Souness.
MessaggioInviato: gio 18 ott 2012, 21:56 
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Altro giocatore come non ne nascono piu'...anche lui fa parte della selezione terrestre.

un pezzo su di lui , tratto da internet.


« Ho collezionato cartellini rossi ovunque abbia giocato e ho quasi scatenato una sommossa in Turchia piantando la bandiera del Galatasaray allo stadio del Fenerbahce ...»
Graeme Souness

Broomhouse, periferia popolare di Edimburgo. Luogo di privazioni e duro lavoro, ma anche ricettacolo di genuinità ed energia. Il pieno di adrenalina attraverso un boccale di McEwan’s o un bel bicchiere di Glenkinchie. Caratteristiche di un quartiere che non possono essere percepite e fatte proprie da chi vi non vi cresce dentro. Ed è fra i prefabbricati, ai confini con la zona residenziale di Sighthill, che Graeme James Souness nasce il 6 maggio del 1953 a sole undici ore di distanza da un altro cittadino illustre della città, l’ex premier britannico Tony Blair. Un’infanzia fatta di molti calci a lattine vuote e a cartaccie arrotolate sulla Medway, di poche cene in famiglia, perché il padre lavorava sempre in vetreria, e presto insieme a lui, i due figli maggiori. Ma anche di fette di carne sempre nel piatto, perché Mr. James Souness non ha mai fatto mancare nulla alla sua famiglia, tanto meno al più giovane. Al predestinato. Ma crescere in un quartiere come quello lascia comunque un impronta di sacrificio, forgia il carattere, trasmette passione e temperamento. La madre era spesso costretta a cercare di contenere le bizze del giovane Graeme, alle prese con un problema. Le scarpe. Una volta alla settimana tacchi e punte erano completamente da rifare. Storie di ordinario suburbio periferico, dove i sogni di emergere dall’anonimato agitano il silenzio di notti squarciate dalle sirene di polizia e ambulanze. Sogni di rivalsa, di rivincita sulla vita, per non essere costretti a finire nel grigio di una fabbrica, come la maggior parte dei tuoi familiari e dei tuoi coetanei.
E a volte le speranze non sono solo illusioni. Si avverano. Quelle di Graeme si chiamano calcio. L’avventura nel mondo del pallone per Souness comincia ufficialmente al college, quando compie quattordici anni. In Scozia, ogni scuola ha la sua squadra ufficiale, preparata e selezionata attraverso acerrimi tornei interni d’istituto, dove i migliori emergono. Buoni e cattivi l’importante è avere il dono, apprendere e farsi valere su quel magico rettangolo verde. Come la scuola di magia di Harry Potter. Con le prime scarpe da calcio della sua vita ed il primo pallone di cuoio, Graeme si mette subito in evidenza. Proprio al termine di un match scolastico viene reclutato dal Tyncastle FC. E grazie alle giovanili di questo club arriva la grande occasione. Wembley a quattordici anni deve fare una certa impressione: ai ragazzi normali tremano le gambe, i campioni affermati non negano brividi lungo la schiena. Souness lascia in un angolo remoto della mente la timidezza e con straordinaria spavalderia conduce i compagni alla vittoria per 2-0. In tribuna i dirigenti del Tottenham, non possono non notare le qualità del ragazzo di Edimburgo. Giocare a Londra, potrebbe rappresentare la fuga dalla mediocrità. Saranno però quattro anni durissimi agli Spurs, con una sola comparsata a Keflavik in una tranquilla trasferta islandese di Coppa Uefa, con tante distrazioni e troppe tentazioni, ma soprattutto con una soverchiante nostalgia di casa. Tra fughe ad Edimburgo e dissidi con la società di White Hart Lane, la notte di San Silvestro del 1972, Souness ebbe il vero colpo di fortuna che gli cambiò la vita. A Londra Nord nessuno credeva più in lui, nel Nord-Est inglese c’era invece un uomo che dopo averlo visto una volta giocare, non aveva più smesso di pensare a lui: Jackie Charlton, "la giraffa", all’epoca manager del Middlesbrough, che non ci pensò due volte a fare una timida offerta agli Spurs che, esausti del capriccioso scozzese, incredibilmente accettarono. Cominciò una nuova vita, anche perché, il tecnico irlandese era un sergente di ferro, uno che non ti lasciava passare nulla, ma soprattutto un grande intenditore di pallone: Graeme era nato come mediano difensivo, Charlton lo trasformò in un interno a tutto tondo, esaltando le sue straordinarie doti tecniche e facendogli imparare la necessità di velocizzare il suo raggio d’azione, stabilizzando le sue bizze caratteriali. Anche se a dirla tutta le conquiste sentimentali dell’ acerbo Casanova facevano parlare più del suo cristallino talento calcistico. Potenza dei tabloid britannici. In ogni caso i quattro anni passati a Ayresome Park produssero una crescita esponenziale, al punto di diventare un beniamino dei tifosi del Boro, conquistati dal suo modo di giocare, e dal suo incontenibile carisma da trascinatore. Debuttò subito. Il giorno dell’Epifania del 1973, in una sfortunata trasferta londinese contro il Fulham, quindi disputò con il “Boro” altre centosettantatre partite in campionato, segnando ventidue gol, oltre a quaranta incontri di Coppa, dove impresse il proprio marchio cinque volte. Resta storica la tripletta che segnò contro lo Sheffield Wednesday nel 1974 nella partita chiave per la promozione in massima divisione del Middlesbrough. Tanto veemente fu l’esplosione di Souness che la provincia cominciò ad andargli stretta: altri Reds, ben più blasonati, lo stavano attendendo. Era il 1977, firmò per il Liverpool e scese in campo per l’ultima volta con il Middlesbrough. Partita contro il Norwich. Tutti sapevano delle 352.000 sterline versate da Bob Paisley per avere Souness: la contestazione nei confronti dello scozzese fu tumultuosa, lo insultarono pesantemente, lo accusarono di mancanza di sentimenti, ma lui è sempre stato uno che è meglio non provocare. Se ne andò dal campo che le dita levate a V, un gesto che in Gran Bretagna è un chiaro invito ad andare a quel paese. Vi mandò i tifosi con le sciarpe biancorosse, mentre lui imperturbabile prese la strada degli spogliatoi e poi quella verso Anfield.
Oggi sono passati oltre trent’anni dal giorno in cui Graeme Souness varcò per la prima volta quello che ora si chiama “Paisley Gateway”, ma su un muro esterno dello stadio del Liverpool si legge ancora una scritta sbiadita: “Graeme is magic”, testimonianza della grandezza di un epoca che il tempo non ha potuto cancellare. Sei anni e mezzo in cui i Reds allenati da Bob Paisley vinsero tutto, in Inghilterra ed in Europa. Con Anfield fu subito amore: quel Liverpool era una squadra formidabile, formata da campioni del calibro di Kenny Dalglish e Terry McDermott, Ray Clemence ed Alan Hansen, ma Souness ne divenne subito guida incontrastata. Dall’esordio il 14 gennaio a The Hawthorns, lo stadio del West Bromwich Albion, al primo gol davanti alla Kop passarono quaranta giorni: una data rimasta nella storia, il 25 febbraio del 1978. Il Liverpool si sbarazzò con un secco tre a uno degli eterni rivali del Manchester United, e Souness segnò il primo dei cinquantacinque gol che l’avrebbero fatto entrare per sempre nei cuori rossi della Merseyside. Fu solo l’inizio di una grande storia, perché nei successivi sei anni lo scozzese divenne il Capitano della squadra e li condusse alla vittoria di ben quindici trofei: un ruolino di marcia impressionante, fatto di tre Coppe dei Campioni, cinque titoli, quattro Coppe di Lega, tre Charity Shields. Gli sfuggirono la Coppa Intercontinentale nel 1978, che non venne disputata, mentre il 13 dicembre del 1981 il Liverpool venne travolto 3-0 dal Flamengo di Zico, la Supercoppa Europea, disputata e persa nel doppio confronto con l’Anderlecht nel dicembre 1978, mentre nel 1981 i Reds non trovarono ufficialmente date disponibili per incontrare la Dinamo Tbilisi, anche se da più parti venne avanzata l’ipotesi che la dirigenza inglese volesse evitare la trasferta in Unione Sovietica. Ma, soprattutto, il grande rammarico di Souness fu e resta l’assenza dal suo dorato palmares della FA Cup. La Coppa d’Inghilterra, il trofeo più importante in terra d’Albione, gli è sempre sfuggita: nemmeno una finale, per cui resta storica la sfida in semifinale nell’edizione del 1980. Furono necessarie ben quattro sfide furibonde contro l’Arsenal, si giocò tre volte al Villa Park di Birmingham, con Souness sempre in campo, e finì ogni volta in un pareggio per uno ad uno: al quarto replay, giocato il primo maggio all’Highfield Road di Coventry, i Gunners si imposero per uno a zero e lo scozzese dovette rinunciare una volta per tutte al sogno della finale nel tempio di Wembley. Non riuscì ad essere decisivo, lui che fu tante volte la chiave di volta dei successi del Liverpool. Non era certo uno che si tirasse indietro, Graeme Souness: fu lui il “Man of the Match” nella finale di Coppa dei Campioni del 1978, contro il Bruges di Renè Vandereycken, fu lui a segnare il gol vittoria della Coppa di Lega 1984 a Maine Road contro l’Everton, e fu ancora lui ad assumersi la responsabilità pesante di calciare il rigore più importante, il terzo, dopo l’errore di Bruno Conti nella finale di Coppa dei Campioni all’Olimpico contro la Roma, la sera del 30 maggio del 1984.
Un giocatore completo, senza apparenti punti deboli, un uomo dal carattere fortissimo, ma con una passione mai nascosta: le belle donne. Graeme Souness ha sempre negato di essere un Dongiovanni, ma la sua predilezione per il gentil sesso è sempre stato sotto gli occhi di tutti. La leggenda di “Champagne Charlie” nacque negli anni già citati di Middlesbrough, dove pare davvero che avesse fatto strage di cuori, al punto di venir preso a muso duro da Jackie Charlton, perché il rischio era quello di veder finire una carriera potenzialmente stratosferica nelle viscere dei letti disfatti di una cittadina industriale del nord inglese. Quell’appellativo, nella Gran Bretagna degli Anni Settanta, spettava a chi conduceva vita brillante e raffinata, pur arrivando dalle modesti classi operaie, e Souness l’ha sempre detestato, ma resta il fatto che le sue conquiste fecero epoca sui giornali, che lo immortalarono persino con Mary Stavin, statuaria Miss Mondo 1977 e Bond Girl nel mitico Octopussy, facendo scoppiare il finimondo subito dopo la conquista della prima Coppa dei Campioni. Poi una sera incontrò Danielle Wilson, la sposò e mise la testa a posto ma solo per un po’. Ormai per tutti era Champagne Charlie, un nomignolo che non si tolse più di dosso. Il 1984 è, forse, l’anno migliore della carriera dello scozzese: un treble favoloso, con scudetto, Coppa di Lega e Coppa dei Campioni, ma gli stimoli vincendo tutto paradossalmente cominciano a mancare. La Nazionale scozzese con la quale totalizzò complessivamente cinquantaquattro presenze e quattro reti, disputando tre Mondiali non era nemmeno questa volta riuscita a qualificarsi per gli Europei che a giugno si sarebbero disputati in Francia, il Liverpool aveva ormai vinto tutto quello che c’era da vincere, Souness doveva assolutamente trovare una nuova sfida: una telefonata dell’amico Trevor Francis, lo Striker che faceva impazzire la Genova blucerchiata, gli mise la pulce all’orecchio, la classe di Paolo Mantovani fece il resto. La Sampdoria aveva bisogno di un Condottiero con cui sostituire Liam Brady, partito per l’Inter, Charlie aveva bisogno di un’avventura che riaccendesse la sua passione. Insomma, un’occasione da non perdere: la vittoria allo Stadio Olimpico di Roma della terza Coppa dei Campioni fu la sua ultima partita con la maglia dei Reds.
Genova, luglio dell’estate del 1984. Un città intera si bloccò per l’ex capitano dei Reds pronto ad indossare la casacca blucerchiata numero otto. Migliaia di tifosi assediarono l’aeroporto di Sestri Ponente, quindicimila persone invasero e bloccarono la centralissima Via XX Settembre per vedere il fuoriclasse scozzese affacciarsi dalla terrazza della sede dell’U.C. Sampdoria, subito dopo la firma del contratto. Sul balcone non spuntò solo lui, ma anche altre tre persone: Paolo Mantovani, Eugenio Bersellini e Trevor Francis. Il boato dei tifosi doriani scosse il centro cittadino. Fu una grande stagione: la Sampdoria finì quarta in campionato, con cinque gol dello scozzese, ma soprattutto conquistò la sua prima Coppa Italia, il 3 luglio del 1985, che sancì l’avvio ad un’epopea irripetibile. La sua avventura italiana terminò l’anno successivo, con un totale di 78 presenze ed undici reti, tra campionato e coppe, forse perché incompatibile con il più giovane Matteoli, forse perché lui stesso sognava la sfida di giocare nei Rangers. Anzi Player-Manager dei Glasgow Rangers.
Per un giocatore scozzese protestante, Ibrox Park è l’approdo naturale della propria vita calcistica. Rangers FC, ”We are the people” . Ibrox, il tempio, Il tribunale del popolo. Come giocatore e, contemporaneamente, allenatore dei Gers, Souness giocò 73 partite e vinse campionato e coppa di lega alla prima stagione, nel 1986-87. Ma nei cinque anni sulla panchina dei Light Blues il grande sforzo di Charlie da Edimburgo fu, soprattutto, quello di provare a dare una mentalità nuova al club, ai tifosi, ai giocatori. Furono anni importanti, dopo l’en plein del primo anno, si prese una pausa la stagione successiva, quindi condusse i Rangers ad altri tre scudetti consecutivi, i primi della clamorosa serie di nove che si concluse nel 1998. Un dominio incontrastato, dopo anni di declino. Prima che arrivasse lui, ad Edminston Drive non vincevano un campionato da dieci anni. Una vita. Fece arrivare giocatori esperti e vincenti come gli inglesi Terry Butcher e Ray Wilkins, scozzesi del calibro di Richard Gough ed Ian Ferguson, genialoidi come Mark Walters e Trevor Steven, ali vere, di quelle che oggi non se ne vedono più, valorizzò fenomeni che sarebbero rimasti per sempre nella storia di Ibrox come Alistair McCoist e Ian Durrant. Una squadra favolosa, alla quale Souness applicò tutto ciò che aveva imparato nella sua straordinaria carriera. Ma ciò che lo rese per sempre un rivoluzionario fu l’imposizione cui costrinse tutti nell’estate del 1989: dal Nantes arrivò Maurice “Mo” Johnston, ex Celtic e cattolico di religione. Tutti si infuriarono a Glasgow, da una parte e dell’altra, ma alla fine vinse ancora una volta lui, il duro del Broomhouse. Johnston non fu il primo cattolico a vestire la maglia blu, ma fu colui che segnò una storica inversione di tendenza, perché dopo di lui ne vennero altri ancora. E nel suo primo Old Firm segnò il gol della vittoria. Estasi e tormento. Nell’estate del 1991 decise di smettere e di accettare l’offerta dell’amato Liverpool come manager. Ma non furono annate d’oro per i Reds ne per Souness afflitto da problemi di salute. Sotto la sua guida, vinsero appena un FA Cup, quella che da giocatore gli era sempre sfuggita, contro il Sunderland nel 1992. Un debito col passato saldato, ma troppo poco per aprire un’era. Nel 1994 ripartì dalla Turchia, sponda Galatasaray, dove divenne più famoso per aver piantato al centro del campo al termine di un derby col Fenerbahce una bandiera giallorossa. Gli anni successivi furono un peregrinare senza costrutto per l’Europa: Southampton, Torino e Benfica, prima di tornare in Inghilterra a Blackburn. Nel 2001 riportò subito i Rovers in Premier, l’anno successivo li condusse alla vittoria della Worthington Cup al Millennium di Cardiff. Con gente come Damien Duff, Andy Cole e Dwight Yorke sembravano esserci tutti i presupposti per aprire un ciclo. Ma non fu così: dopo le solite mille discussioni con la proprietà, la sua esperienza finì nel 2004, con una nuova sfida avanti a non far rimpiangere Sir Bobby Robson al Newcastle. Nonostante grandi giocatori come Shearer ed Owen, nonostante un memorabile 3-2 in un Tyne-Wear Derby con il Sunderland, nonostante una semifinale di Coppa Uefa, Souness non è mai riuscito a dare una vera sterzata ai Magpies. La sua avventura si è chiusa drasticamente, e da allora la sua carriera di tecnico si è come bloccata. Molte voci, alcuni abboccamenti, niente di davvero concreto: una carriera da manager nata sotto una cattiva stella. Meglio allora ricordare il Souness calciatore, duro, irrequieto, ma sicuramente uno dei più grandi centrocampisti che la storia del calcio abbia mai conosciuto. Negli anni ruggenti e indimenticabili del football britannico.

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GULLIT:"Quando vedo Messi penso che è un grande calciatore ma è protetto: dagli arbitri, dalle telecamere, dal regolamento. Messi può limitarsi a dribblare. Diego doveva saltare alto così, non per fare dribbling ma perché volevano spezzargli le gambe".


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E' strano pensare che, all'epoca, la Sampdoria potesse tranquillamente strappare al Liverpoll la sua bandiera!...

Oggi le cose sono un pochino cambiate, giusto un filo!

E sono cambiate anche per la Scozia, che era una fucina di talenti e partecipava regolarmente al Mondiale.
(E allora potevano qualificarsi soltanto 24 nazionali, non 32 come oggi!...)


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 Oggetto del messaggio: Re: Graeme Souness.
MessaggioInviato: gio 4 nov 2021, 21:55 
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Due pillole tratte dalla rivista britannica "Shoot!" del 14 giugno 1986, in cui Graeme Souness dice che il suo più memorabile match fu la finale di Coppa dei Campioni 1984 contro la Roma e che Jack Charlton fu il personaggio più influente della sua carriera, dato che prima di averlo avuto come allenatore al Middlesbrough non aveva mai preso il calcio troppo seriamente.

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