Sono stupefatto, ma non pare esistere un thread dedicato alle imprese di questo grande e parzialmente incompreso giocatore. Conosciamolo meglio attraverso un'intervista di recente da lui concessa al Corrierazzo veneto.
Beniamino Vignola, il vice di Platini, che vende vetri per auto: «Gli piaceva giocare con me. Dybala erede? No» L’ex fantasista di Juve, Avellino e Verona: «Michel era un fuoriclasse assoluto. Il gol che valse la Coppa delle Coppe contro il Porto fu l’apice. Boniperti, che soggezione»
È il 7 gennaio del 1979; allo Stadio Curi di Perugia tra i padroni di casa e il Verona finisce 1-1. Al 38’ del primo tempo Beppe Chiappella, allenatore dei gialloblù in una disgraziata stagione che sfocerà nella retrocessione, manda in campo un ragazzino dal sinistro d’oro, cresciuto nel vivaio. Si chiama Beniamino Vignola. Quel pomeriggio debutta in serie A e sarà per lui l’avvio di una carriera che lo porterà su palcoscenici di alto prestigio.
Vignola, aveva 19 anni: sulle gradinate del Bentegodi la chiamavano «Vignoleta», se lo ricorda?… «Eh certo, “Vignoleta” (ride, ndr). Ero partito da Cà di David a due passi dalla città, dove stavano i miei nonni materni. Un anno e mi prese il Verona, dove feci tutta la trafila delle giovanili».
Il presidente era allora «el Commenda» Saverio Garonzi. Che ricordo ne ha? «Mi vedeva bene e mi fece il primo contratto. Ero bravo tecnicamente ma leggerino. Ogni anno facevano la scrematura tra chi restava e partiva: “è bravo il ragazzino, però…”. C’era sempre un “però”. Guido Tavellin, responsabile del settore giovanile, credeva in me, io mi irrobustii un po’e così nel 1978 arrivai alla prima squadra allenata da Ferruccio Valcareggi che mi portò per la prima volta in panchina. Ho avuto la fortuna di trovare grandi maestri come Mascetti, Maddè, Busatta, Superchi, fino a quel matto di Zigoni. Da loro ho imparato cose che mi son rimaste tutta la vita».
Dopo un anno, da Verona si ritrovò ad Avellino. Come nacque quel trasferimento? «Dovevano sistemare i conti. Avevo richieste da squadre più vicine a casa, ma la miglior offerta venne dall’Avellino. Io volevo giocare in serie A e non ci pensai due volte. Partivamo da - 5 di penalizzazione per il calcio scommesse, e non pensai nemmeno a quello; fu un’annata straordinaria, ci salvammo e fu un’impresa che ancora ricordano dopo quarant’anni. L’anno più esaltante della mia carriera».
Era il 1980: ad Avellino visse il dramma del terremoto in Irpinia… «Devastante. Allo stadio c’era la tendopoli, noi calciatori eravamo dei privilegiati e ci portarono via. La città sembrava fosse stata bombardata, come Kiev oggi. Terribile. Ad Avellino ho vissuto un’esperienza molto formativa. Arrivai che ero un ragazzino e andai via che ero un uomo».
Lei e Stefano Tacconi vi ritrovaste poi davanti a Giampiero Boniperti a Torino nella sede della Juventus. Bel salto, no? «Io e Tacconi abbiamo giocato insieme sette anni, tre all’Avellino e quattro alla Juve. Trovarsi davanti a Boniperti era qualcosa di inimmaginabile. Il Comunale era un tempio del calcio, e c’era da aver paura solo ad entrare nello spogliatoio: era un gruppo di campioni di grandissima personalità e carisma, i campioni del mondo in Spagna con due fuoriclasse come Platini e Boniek».
Le Roi Michel, lei il suo vice. Mica male. «Aveva stima di me, perché gli piacevano i giocatori tecnici. Il primo anno giocammo insieme, e lui era contento perché poteva stare un po’ più avanti e cercare il gol. Un numero 10 che, nonostante i grandi attaccanti che c’erano allora in Italia, ha vinto per tre anni di fila il titolo di capocannoniere della serie A. Un fuoriclasse assoluto, vincitore di tre Palloni d’oro consecutivi. Paragonare oggi Dybala a Platini è una bestemmia calcistica; Dybala è un grande giocatore, ma per favore lasciamo stare Platini».
Come si rapportava Platini nello spogliatoio? «Una persona molto semplice e disponibile. Il fatto che fosse francese poteva farlo passare per altezzoso, ma non era affatto così. Era molto legato al gruppo e non ha mai fatto la primadonna. Anche perché in quello spogliatoio, con i campioni che c’erano, sarebbe stato assai difficile. Non appena alzava la voce gli dicevano “Ehi, guarda che qui i campioni del mondo siamo noi”».
Il gol nella finale di Coppa delle Coppe a Basilea nel 1984 contro il Porto, è il momento più bello della sua carriera? «Sì. Per tirare un po’ l’acqua al mio mulino, dicevo: “Più che il numero, conta il peso dei gol”. La mia maglia numero 7 è esposta al museo della Juventus a Torino, ed è un grande onore per me. A Paolo Garimberti, presidente del museo, scherzando ho detto: “Finché un altro numero 7 non segnerà un gol vincente in una finale europea, la mia maglia rimarrà lì, vero?”. Ho rischiato con Cristiano Ronaldo, e adesso ne è arrivato un altro niente male (Dusan Vlahovic, ndr); perdere il posto, significherebbe che è l’anno buono per tornare a vincere una coppa europea. Speriamo».
Il suo ritorno al Verona non fu felicissimo. Cosa non andò? «L’anno prima il Verona aveva vinto lo scudetto, e fu una stagione tribolata. Io non fornii prestazioni di alto livello, ma la squadra aveva dato tutto l’anno precedente, e ripetersi era difficile. Fanna, Marangon e Garella erano andati via; arrivammo io, Verza e Giuliani. Quelli prima di me avevano fatto qualcosa di storico, diciamo che arrivai al momento sbagliato, anche perché chi arriva per ultimo paga. A pensarci bene, forse fu un errore andare in quel momento al Verona».
E poi? «Feci un altro errore, tornare alla Juventus. Non ebbi il minimo dubbio, ma sarebbe stato meglio provare a ripartire da un club meno importante. Giocai poco, il treno era passato, la poesia finita. Mi ritengo però contento della carriera che ho avuto. Ho fatto anche le olimpiadi di Los Angeles con la maglia azzurra».
Il «dopo» è sempre un momento molto delicato nella vita di un atleta. Lei nel lavoro si è messo un’altra maglia numero 10. «Ho smesso a 32 anni, giovanissimo per la vita fuori dal calcio. Nel calcio sei un privilegiato, ma poi ti ritrovi nel mondo del lavoro e intraprendere un’attività non è facile. Mio suocero aveva avviato un’attività nel commercio di vetri per le auto, oggi abbiamo due ditte, Vetrauto e Vetrocar, che mandiamo avanti io e mio cognato. La mia fortuna è stata trovare un macchina ben rodata in famiglia. Io ci ho messo passione e voglia di fare».
E il calcio di oggi le piace? «È un altro mondo, sono passati quarant’anni. La tecnica è venuta meno a scapito di forza fisica, corsa e velocità. Non appena si vede un giocatore tecnico, lo si osanna; quando Pirlo ha lasciato la Juve si son messi a piangere un po’ tutti».
Magari, il sinistro di Beniamino Vignola farebbe ancora comodo… «Beh dai, qualche volta sì».
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