Un altro articolo di Adalberto Bortolotti:
E' comparso, trasversalmente in quasi tutte le puntate precedenti. Perché è lui il riferimento obbligato. Il re del calcio, ma più che il re, il simbolo, l'essenza, la malìa del calcio. "Se non fosse nato uomo" ha scritto il brasiliano Armando Nogueira "sarebbe nato pallone".
Edson Arantes do Nascimento, conosciuto nel mondo come Pelè, contabilizza, con tanto di certificato notarile, 1280 gol in 1366 partite a carattere ufficiale. E tuttavia qualificare Pelè come uomo-gol sarebbe bestemmia tecnica. Come qualificarlo in qualsiasi altra maniera. In Inghilterra hanno scritto: "Pelè sta al calcio come Shakespeare alla letteratura inglese o Cervantes al castigliano".
Il talento lo bacia precocemente. Il padre Dondinho è stato un centravanti di valore nel Fluminense, sin quando uno scontro col nazionale brasiliano Augusto gli ha stroncato una gamba e la carriera. Nella casetta di Tre Coracoes, Tre Cuori, nel Minas Gerais, la mamma Celeste manda avanti la famiglia come può. Edson, il futuro Pelè, che tutti chiamano Dico, a tredici anni si presenta per un provino al BAC, che ha messo un annuncio sul Diario de Baurù per una leva di ragazzini. L'allenatore è Valdemar de Brito, mezzala della Selecao al Mondiale del 34 in Italia. L'occhio del vecchio campione individua al volo la perla, in quella marea di piccoli aspiranti. Lo chiama subito fuori dal branco, per nasconderlo agli occhi indiscreti.
Nel frattempo, Dico è diventato Pelè, pare perché abituato a giocare su un campetto brullo, 'pelato', vicino a casa. Il BAC si laurea campione della città di Baurù, alla seconda giornata Pelè segna sette gol e diventa l'attrazione del paese. Però, vinto un altro campionato, il Baurù scioglie il settore giovanile. Pelè si dedica al futebol de salao, il nostro calcetto. Brito ha il chiodo fisso di portarlo al grande calcio.
Mette in moto vecchie conoscenze, ottiene un provino al Santos. Pelè, che vede il mare per la prima volta, conosce i suoi idoli, Zito, Pago, Jair da Rosa Pinto. L'allenatore del Santos è Lula. Brito gli ha fatto una testa così, con quel moccioso, e allora nel test Lula lo affida alle cure di Formiga, difensore della Nazionale, e gli dice di non usare riguardi. Formiga è più alto di tutta la testa e fa la faccia feroce, ma Pelè lo imbastisce di finte, lo mette a sedere due volte e Lula interrompe l'allenamento, prima che la cosa faccia troppo scalpore, e fa cenno a un dirigente che arriva trafelato sul campo con un contratto da firmare.
Pesa cinquanta chili, uno scricciolo. Alcuni mesi di robusti esercizi fisici e un tirocinio nelle giovanili lo rendono pronto all'esordio il 7 settembre 1956, non ancora sedicenne. Pelè sostituisce Del Vecchio, che verrà in Italia, contro il Corinthians di Santo Andrè e segna subito un gol. Cinque mesi dopo, ha stabilmente conquistato la maglia numero dieci del club, che indosserà per diciotto stagioni consecutive. Nel corso delle quali porta il Santos a vincere dieci volte il titolo paulista, per cinque volte la Coppa del Brasile, per due volte la Coppa Libertadores e la Coppa Intercontinentale, nel 62 e nel 63, contro Benfica e Milan. Per nove anni consecutivi, dal 57 al 66, Pelè si laurea capocannoniere del campionato di San Paolo. Il Santos diventa la squadra più famosa del Brasile, deve abbandonare il suo stadio di Vila Belmiro, ormai troppo esiguo per le prodezze di Pelè, e trasferirsi nello sterminato Morumbi di San Paolo.
Se a sedici anni Pelè è una stella del Santos, a diciassette debutta nella mitica Seleçao e a diciotto non ancora compiuti trascina il Brasile al primo titolo mondiale della sua storia, sino ad allora ricca di presunzione e di occasioni mancate. Piange il piccolò Pelè nella lontana Svezia quando re Gustavo, al momento di consegnare la Coppa al capitano Bellini, si ferma un attimo a cercare il favoloso negretto, poi gli fa un cenno d'intesa, come a dire: questa l'hai vinta tu.
Tre mondiali vince Pelè dei quattro che gioca, e nessuno al mondo si avvicina all'impresa. Altafini, che gli gioca a fianco nei primi anni, ne elenca le qualità: "Lo scatto del centravanti, il palleggio del giocoliere, il colpo di testa, il tiro, il dribbling, la finta, la resistenza fisica". Cioè, di tutto, di più. Nel 1970, in Messico, quando vince il suo terzo mondiale nella finalissima contro l'Italia di Valcareggi, Pelè ha trent'anni. Eppure si riscopre giovane e prodigioso atleta del gol, si stacca in elevazione mezzo metro sopra il roccioso Burgnich, resta sospeso in aria sinché il pallone impatta la sua fronte e allora incorna, con una micidiale torsione del collo, fuori dalla portata di Albertosi. Poco dopo abbandona la Nazionale, con 115 partite e 97 gol. Col Santos chiude nel 1974, dopo 1113 partite e 1089 gol. Passa al Cosmos, un anno dopo, per una telefonata di Henry Kissinger: due stagioni, un titolo del Nordamerica, altri 65 gol. E poi l'addio.
Ha fatto fermare una guerra (tra Nigeria e Biafra, per assistere a una sua esibizione) e fatto espellere un arbitro che l'aveva mandato fuori per proteste (in Colombia). Ha cambiato poche squadre e molte donne. E' diventato ministro. E' Pelè, il calcio.
_________________ «...ricorda che se anche i nostri dirigenti ci danno per spacciati e dicono che sarebbero contenti anche se perdessimo 4-0, a me non interessa. Io oggi scendo in campo per vincere e voglio che quelli che scendono con me oggi abbiano lo stesso obiettivo. Se vedo qualcuno che non combatte questa battaglia, alla fine della partita dovrà vedersela con me. Fatti forza Ruben, quei duecentomila là fuori non giocano, guardano solamente».
Il capitano Obdulio Varela al giovane Ruben Moran prima della finale del Mondiale 50, Brasile 1 Uruguay 2
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