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 Oggetto del messaggio: La Sampdoria di Mantovani
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PROLOGO

«Dunque l'han battezzata Samp-Doria. È stato un parto laborioso e alla fine non troppo felice... Quel Samp-Doria dà ì brividi alla schiena... Vi par di sentirli i tifosi gridare: "Forza Samp-Doria "? No davvero».

Beh, oggi ci pare, eccome. Ma è tuttavia comprensibile che quell'iniziale distonia potesse risultare fastidiosa al cronista della "Gazzetta dello Sport" che il 9 luglio 1946 salutò in questo modo la nascita della nuova società.Giustificabile il disagio: si sa, da sempre le fusioni nel nostro calcio sono osteggiate da ogni parte. Ma per Genova si fece un'eccezione, perché per il capoluogo ligure tre squadre erano diventate davvero troppe. L'Italia era in ginocchio, schiacciata dal peso di una guerra che l'aveva annichilita, e i soldi non scorrevano certo a fiumi. Logica, quindi, in un'epoca di transizione tra il calcio eroico e quello milionario, la decisione di ridurre il numero delle squadre della città, che poteva offrire un limitato bacino d'utenza. Intoccabile era l'antico e glorioso Grifone rossoblu, mentre in profonda crisi erano le due società della Sampierdarenese e dell'Andrea Doria. Lasciate da parte logiche rivalità di campanile, le due squadre decisero di unire colori, denari e cuori dei tifosi. Ultimo ostacolo da superare, appunto, il nome da dare alla neonata associazione sportiva. Si decise per sorteggio.

ALLE ORIGINI DEL TRIONFO

Gli esordi della giovane formazione, poi, furono più che incoraggianti, tanto che per vent'anni buoni non si schiodò dalla massima serie. Due decenni fra i grandi: senza mai ambire allo scudetto, per carità, ma carichi di soddisfazioni, di derby infuocati e di apparizioni di alcuni veri campioni, come il leggendario idolo argentino Ernesto Tito Cucchiaroni, l'austriaco Ernst Ocwirk e lo svedese Lennart Skoglund, che nel 1961 trascinarono i blucerchiati a uno storico quarto posto. Ma la supremazia dei colori rossoblu non appariva in discussione, sotto la Lanterna. Certo, anche il Grifo non se la passava tanto bene, ma i nove scudetti cuciti sulle antiche casacche rammentavano fasti difficilmente ripetibili. Poi vennero anche le prime magre doriane, che ebbero come logica conseguenza un anno di castigo fra i cadetti, nel 1966-67.

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Ma la subito promossa Samp non seppe più ritrovare la vena che l'aveva sostenuta per un ventennio e firmò una decina di stagioni contrassegnate in larga parte da salvezze al pelo, da quart'ultimi posti acciuffati con la forza della disperazione.

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Poi venne il 1977, e i genovesi sprofondarono nuovamente nelle sabbie mobili dell'infida B. Un pantano che avrebbe stretto la Doria fino alla cintola per ben cinque anni. Finalmente, nel 1979, quando il ritorno nella massima serie appariva un miraggio, Paolo Mantovani assunse la presidenza della società. Quel giorno si posero le basi per un'incredibile scalata ai vertici del calcio italiano, che avrebbe proiettato la Samp fra le grandi d'Europa. Mantovani, che nei seguenti quindici anni di presidenza si sarebbe distinto per l'anticonformismo, la lontananza dai saloni di palazzo e dai colpi a sensazione, il giorno della presentazione alla stampa si concesse l'unica sparata della sua vita: «Torneremo in Serie A» disse. «Preparate i passaporti... vinceremo lo scudetto». A quel punto i presenti ebbero un sussulto: la conquista della Serie A appariva come un dovere irrinunciabile, ma pensare a posizioni-Uefa o addirittura allo scudetto era roba da matti, soprattutto con una squadra immersa nel dramma-B già da due stagioni.

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Ma il nuovo numero uno blu-cerchiato parlava con piena cognizione di causa. Trasferitosi nel capoluogo ligure dalla natia Roma a soli venticinque anni, da dipendente di una società di navigazione era riuscito a diventare armatore, per fare poi fortuna col petrolio. Ricco, quindi, ma non solo: intelligente e schivo, riusciva a coniugare alla perfezione i pregi e i difetti tipici di genovesi e romani. Sarebbe diventato una leggenda e il pubblico donano lo avrebbe amato incondizionatamente.I primi anni, però, nonostante le dichiarazioni iniziali, non furono facili. Si sa, tornare nella massima serie non è uno scherzo, e tante volte denaro e buone intenzioni non sono sufficienti. All'avvio della stagione 1981-82, il vero dramma: il 2 settembre 1981, a Cagliari per un incontro di Coppa Italia, il presidente fu colpito da un infarto mentre sedeva in panchina con l'allenatore Riccomini. Fu l'inizio di un calvario che, accompagnato da svariate beghe giudiziarie, lo portò a un volontario esilio in Svizzera.Esonerato Riccomini alla quinta giornata dopo una batosta a Lecce, per il rilancio di una Samp che stentava si optò per un giovane tecnico toscano, Renzo Ulivieri, il classico uomo della provvidenza. A fine stagione, dopo tanto patire, i blucerchiati avrebbero raggiunto il sospirato traguardo. Il più era fatto: l'ossatura della squadra era robusta, il tecnico aveva le idee chiare e il presidente i miliardi.

DAI CADETTI CON FURORE

La campagna acquisti per la stagione 1982-83 diede un'idea della dimensione che stava assumendo la squadra genovese. Non più vecchie glorie o mezzi brocchi, ma campioni appetiti da tutta la Serie A. Nonostante la forzata lontananza da Genova, Mantovani riuscì in colpi di mercato clamorosi. La stagione precedente aveva visto uno sgangherato Bologna retrocedere in Serie B per la prima volta nella sua storia; quella disastrosa annata, però, era stata illuminata dai primi bagliori di un campione ancora in fasce. Un ragazzino di Jesi che, con le sue nove reti e le sue prodezze, aveva tenuto vive le speranze dei felsinei fino all'ultima giornata. Attorno al nome di Roberto Mancini, il fanciullo-prodigio, si scatenò un'asta sfrenata. A spuntarla fu proprio la Samp, che per la cifra-record di quattro miliardi si assicurò il giocatore che più di ogni altro avrebbe segnato la sua storia. Sulle doti del giovane non si ammettevano discussioni: all'annuncio della sua cessione, Gigi Radice, in procinto di firmare il contratto, rifiutò la panchina dei rossoblu. In più, da Bologna sarebbe arrivato anche il nuovo diesse Borea, un altro destinato a mettere solide radici in riva al Mar Ligure.
Ma la campagna di rafforzamento sampdoriana non si limitò al gioiellino bolognese: anche due affermati campioni come Francis e Brady sbarcarono a Genova. E se il presidente fosse stato un uomo di diversa caratura, la Samp avrebbe potuto disporre di un'altra pedina di peso: anche il giovane Pietro Vierchowod, infatti, prelevato un paio d'anni prima dal Como, avrebbe dovuto fare parte della brigata di Ulivieri, ma si ritrovò alla Roma in prestito (giusto in tempo per vincere uno scudetto accanto a Falcao, Conti e compagnia) in virtù di una promessa fatta da Mantovani a Dino Viola. Chi non l'avrebbe voluto, anche allora, l'indomito "russo"? Ma Paolo era fatto così: una promessa a un amico, seppure a malincuore, aveva lo stesso valore di un contratto steso davanti a schiere di notai e avvocati. Davvero strano che un tipo così sia riuscito a vincere tanto, in un calcio come quello di oggi.I miliardi spesi sortirono comunque gli effetti desiderati, tant'è che la Doria spesso e volentieri diede del filo da torcere anche alle grandi. Solo Mancini, il tanto sbandierato golden-boy, non rendeva secondo le attese: più volte Ulivieri lo relegò in panchina, anticipando la sua tendenza di allenatore allergico ai fuoriclasse. Ma il Mancio si sarebbe rifatto, e con gli interessi.Alla fine fu un confortante settimo posto, posizione di tutto rispetto per una neopromossa.

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1982/83: la prima grande Samp di Mantovani, con Mancini, Francis e Brady
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La stagione successiva fece finalmente ritorno alla base Vierchowod, fresco campione d'Italia in giallorosso; gli acquisti di Galia, Marocchino, Renica e Bordon diedero maggiore solidità alla compagine di Ulivieri. Ancora settimi, nell'anno del furioso ritorno della Juve di Platini. Qualcosa, però, bolliva già in pentola, in vista del campionato 1984-85. C'era un ragazzino che segnava gol a grappoli in B, con la Cremonese. Sì, era un po' mingherlino, ma data l'età sarebbe stato interessante metterlo accanto a uno come Mancini. Chissà: forse la Samp avrebbe vinto qualcosa per la prima volta, con quei due...

E ALLA FINE ARRIVO' VIALLI...

Finalmente, la campagna acquisti 1984-85 iniziò a strutturare seriamente la squadra che avrebbe trionfato nel 1991. Mancini, Pellegrini e Vierchowod erano a Genova da tempo; presi Souness e Salsano, la società decise di puntare sui giovani, e a disposizione del nuovo allenatore Bersellini mise Vialli, Mannini e Pari. Nelle intenzioni della dirigenza, la Samp avrebbe dovuto aprire un ciclo destinato a durare nel tempo, data la verde età dei giocatori. Mantovani e Borea azzeccarono ogni mossa, e fin da quella stagione misero in bacheca il primo trofeo della storia doriana: la Coppa Italia, conquistata ai danni del Milan. In più, il quarto posto in campionato incorniciò una stagione favolosa. Stava nascendo la Samp-simpatia, destinata a segnare un'epoca del calcio italiano. Sarebbe stata la squadra dei giovani, della libertà, della fantasia al potere e delle stravaganze; orde di ragazzine si sarebbero votate al culto blucerchiato, rapite dal fascino dei gemellini del gol. Ma sarebbe stata lungamente etichettata come la bella incompiuta, come la squadra priva di maturità, vittima del proprio narcisismo.
Una congiunzione unica, che maturò sotto il saggio pontificato di Paolo VII, come era stato soprannominato dai tifosi, un presidente-padre, capace di amare i suoi giocatori come propri figli e di essere a sua volta riamato come un secondo padre. Fu certamente lui il collante che permise alla Samp di non dissolversi, di non essere dilaniata dalle mire degli squadroni, che a turno avrebbero lusingato a suon di miliardi Vialli, Mancini e Vierchowod. Se i blucerchiati rifiutarono più volte i metropolitani contratti faraonici fu per riconoscenza verso Mantovani, che col suo affetto li aveva fatti sentire blucerchiati nel cuore. Dopo i trionfi del 1985, la Doria, imbottita di giovani, pareva pronta per una nuova stagione di successi: pochi ritocchi sarebbero bastati per renderla competitiva su ogni fronte. Arrivarono infatti un uomo di classe come Matteoli, regista di enorme valore, e il giovane Pino Lorenzo, un ariete grosso come un armadio che aveva fatto sfracelli a Catanzaro. Puntualmente, la Samp non seppe ripetersi e firmò una delle sue peggiori stagioni, finendo all'undicesimo posto. Bersellini aveva esaurito il suo ciclo, non c'era ombra di dubbio in proposito. C'era un allenatore slavo, che a suo tempo aveva anche indossato la maglia blucerchiata, negli anni Sessanta. Aveva appena riportato in Serie A l'Ascoli, si poteva provare...

L'ERA BOSKOV
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La squadra fu quindi affidata a Vujadin Boskov che, nonostante l'enorme esperienza accumulata all'estero, in Italia era considerato un allenatore emergente. Il saggio serbo, uomo intelligente e navigato, non avrebbe comunque tardato a dare una precisa fisionomia alla Samp. Senza paura, avrebbe lanciato giovani sconosciuti, pescati nel vivaio blucerchiato: Maurizio Ganz e Antonio Paganin avrebbero fatto le loro prime apparizioni sul palco della A proprio in quella stagione. Alle spalle di Bistazzoni, portiere titolare, premeva un ragazzone bolognese, Gianluca Pagliuca, prelevato dalle giovanili rossoblu. Avrebbe avuto occasione di dimostrare il proprio valore, con Boskov in panchina. In più, gli arrivi del roccioso Briegel, difensore che aveva conquistato lo scudetto a Verona, e del giovane Fusi dal Como diedero più compattezza al giovane organico.Fu la classica annata di transizione, che vide i blucerchiati, sesti al termine della stagione, perdere il posto-Uefa solo dopo uno sfortunato spareggio col Milan. Nonostante l'amarezza finale, le note liete non mancarono: Vialli, notevolmente irrubostito fisicamente, stava definitivamente affermandosi come implacabile bomber, mentre il Mancio, finalmente libero dai tormenti di Ulivieri e Bersellini, pennellava capolavori. Mancava ancora la malizia, alla Samp, sempre più squadra-simpatia. Giovane e brillante, ma generosa con gli avversari nei momenti topici. Sai che soddisfazione: la simpatia non finisce mica in bacheca, e i miliardi spesi da Mantovani reclamavano ben altri allori. Occorreva l'uomo che riuscisse a far quadrare il cerchio, che sapesse offrire esperienza ed entusiasmo, che sapesse sacrificarsi senza storie. Per farla breve: occorreva Toninho Cerezo, un trentenne brasiliano troppo frettolosamente ripudiato dalla Roma. Perché il buon Toninho, che faceva parte della generazione dei vari Falcäo e Zico, non apparteneva alla schiera dei fenomeni conclamati. Il suo compito, in sostanza, era correre, e tanto, anche per chi credeva che per essere campioni bastasse avere piedi fatati. Mai acquisto fu più saggio, da parte della dirigenza. L'arrivo del sudamericano coincise con l'inizio della stagione dei trionfi: subito quarti in campionato e vittoria in Coppa Italia, tanto per gradire.
La stagione 1988-89, quindi, vide la partecipazione della Samp alla Coppa delle Coppe, che avrebbe riservato ai blucerchiati una grossa amarezza a Berna, contro il fatal Barcellona. In prima squadra si affermarono stabilmente Pagliuca, che dopo le due apparizioni della stagione precedente aveva scavalcato il vecchio Bistazzoni, e il genovese Marco Lanna. L'acquisto più importante, comunque (registrato per dovere di cronaca quello dello spagnolo Victor), fu quello di Beppe Dossena. Dato per finito dopo l'amaro epilogo della sua lunga avventura al Torino, Dossena aveva saputo rifarsi nella quiete di Udine. Ma le ambizioni dei friulani erano troppo modeste, per l'antico guerriero granata: a Genova avrebbe ritovato la serenità e la gioia dei primi anni torinesi. Anni trionfali, in cui il paragone col leggendario Valentino Mazzola corse spesso fra i tifosi anziani senza suonar bestemmia. Fu probabilmente la stagione della maturità, quella: la Samp si rese conto finalmente delle proprie reali capacità, nell'amara serata della sconfitta in finale di Coppa delle Coppe. Era ormai una squadra capace di competere su ogni fronte, in Italia come in Europa. Ancora una Coppa Italia, quindi, per tentare di nuovo l'avventura europea forte dell'esperienza accumulata.

PRIMI IN EUROPA

Boskov si era guadagnato alla grande la conferma alla guida dei blucerchiati, per la prima volta seriamente intenzionati a conquistare il titolo di Campioni d'Italia. Perché le coppette andavano bene, però per avere la tanto agognata supremazia cittadina occorreva il colpo grosso, quello che fa entrare nella storia del calcio. Ma la rivalità di campanile poco contava, secondo il presidente, che giustamente non vedeva nel Genoa un avversario all'altezza delle pretese doriane: «I nostri nemici non stanno a Genova: stanno a Firenze, a Milano, a Torino. Sono quelli che hanno paura che noi poi si finisca per scalzarli in classifica. Perché sanno che li scalzeremo». Nel maggio del 1989 arrivò la grande professione di fede dei giocatori blucerchiati, nel momento di maggior pressione da parte della Juve, che in tutti i modi cercava di strappare alla Sampdoria i suoi gioielli. Si trovarono a cena in tanti (Mancini, Vialli, Vierchowod, Pagliuca, Mannini e Pari), con le rispettive famiglie, in ansia per il proprio futuro. A un certo punto, Mancio, leader, in campo e fuori, si alzò e strinse un patto con i compagni presenti: nessuno si sarebbe mosso da Genova finché non si fosse vinto lo scudetto. Quanti giocatori, oggi, avrebbero il coraggio di rifiutare la Juventus, sinonimo di alti ingaggi, popolarità e vittorie? Anche il Milan, nell'estate dell'86, aveva incassato il secco no di Vialli, fermamente intenzionato a vincere con la maglia blucerchiata.
Difficile comprendere queste scelte, non conoscendo il presidente Mantovani. Mancini si giustificò così: «Se non sono andato via è stato anche per lui: credo che i rapporti umani nella vita valgano molto e non me la sentivo di voltare le spalle a chi mi aveva voluto bene». Così compattata, la Samp si presentò al via del campionato 1989-90 coi nuovi arrivi Invernizzi, Lombardo e Katanec. Quest'ultimo, una specie di bisonte sloveno proveniente dallo Stoccarda, fortissimo di testa, avrebbe dato quella fisicità che mancava al centrocampo blucerchiato. Nonostante l'ottimo rendimento della squadra, a un certo punto della stagione il tecnico slavo rischiò seriamente l'esonero, dopo avere paragonato il proprio cane all'uruguaiano Perdomo, allora in forza ai cugini del Genoa: «Il Genoa ha speso un miliardo e mezzo per Perdomo, ma se io lascio libero il mio cane, gioca meglio dì lui». Anche questo episodio, che può apparire per certi versi comico, contribuisce a rendere l'idea del personaggio Paolo Mantovani, sempre lontano dalle polemiche e da qualsiasi tipo di faziosità. Fortunatamente il diesse Borea ricucì lo strappo: quello fu l'anno della definitiva consacrazione dei ragazzi di Boskov, che a Goteborg conquistarono finalmente la Coppa delle Coppe ai danni dei belgi dell'Anderlecht. Nuovamente quinti in campionato, ma con grandi ambizioni per il futuro.Eccellente l'innesto di Lombardo, un'ala che si era rivelata preziosissima.
Vero leader della squadra si era affermato, stupendo tutti quelli che ne avevano prematuramente inciso l'epitaffio, il nonnetto Toninho Cerezo, reduce da una onorata carriera da gregario: «Giusto così. In mezzo a Socrates e gli altri il più brocco ero io. Toccava a me correre per tutti. Ma adesso che i grandi nomi vanno diminuendo, che il calcio ha trovato valori un po ' più dimezzati, ecco che il sottoscritto può proporsi nel ruolo di leader. In mezzo a Victor e Pari mi sento un leone, con meno ossigeno ma con molto fosforo in più». Intanto, i Mondiali italiani erano in vista: Vialli era la stella della Nazionale azzurra: affiancato dall'astro nascente Roberto Baggio avrebbe dovuto fare sfracelli. L'uomo dell'estate fu Totò Schillaci, destinato a conoscere brevi fortune: Vialli, invece, firmò un torneo disastroso e si trovò in prima fila tra gli imputati di alto tradimento.

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La Sampdoria posa con la Coppa delle Coppe 1990

FINALMENTE IL TRICOLORE

Nessuno credeva realmente nella squadra di Boskov, alla vigilia della stagione 1990-91, soprattutto dopo il pessimo Mondiale del suo bomber principe. L'unica novità di rilievo, d'altronde, era costituita dall'arrivo del fuoriclasse ucraino Mikhailichenko, stella della Nazionale sovietica e della Dinamo Kiev. Ma a credere nel biondissimo centrocampista erano davvero in pochi, viste le magre raccolte dai suoi connazionali Zavarov e Alejnikov. Dal munifico Bologna, poi, era arrivato Ivano Bonetti, reduce da due ottime stagioni in rossoblu. In lotta per la testa della classifica fin dalla prima giornata, i blucerchiati, trascinati proprio da Vialli e da un superbo Mancini, non abbandonarono mai il gruppo delle grandi, che via via andò perdendo pezzi, come una fragile Juve targata Maifredi, che resse soltanto mezzo campionato. Solo verso il termine del girone di andata, proprio dopo la clamorosa affermazione ai danni dell'Inter, la Samp accusò una brusca flessione: due sconfitte consecutive, in casa col Torino e a Lecce, parvero confermare la cicalesca vocazione dei blucerchiati, belli ma mai capaci di accumulare punti facili per i tempi difficili. Campione d'inverno fu quindi l'Inter, con la Doria seconda a inseguire staccata di due lunghezze.E in anni di totale zona-mania. Boskov venne da più parti accusato di difensivismo e di obsoloscenza calcistica. Per nulla preoccupato, il volpone dei balcani rispondeva ai suoi detrattori: «Sarei pazzo se giocassi a zona, avendo in Vierchowod e Mannini i campioni del mondo della marcatura individuale». Sarebbe stato un estenuante testa a testa con l'Inter, che si sarebbe protratto fino all'indimenticabile domenica di San Siro, che annunciò l'imminente trionfo doriano. Fu un rotondo zero a due, con reti di Dossena e Vialli. Ma l'eroe della giornata fu Pagliuca, che parò un rigore all'infallibile Matthäus. Soltanto alla penultima giornata, dopo avere sonoramente schiaffeggiato il povero Lecce, potè avere inizio la festa, che vide un insospettabile Cerezo capofila dei goliardi blucerchiati.

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ULTIMI FUOCHI E ADDIO AL PRESIDENTISSIMO

Sarebbero stati gli ultimi splendori di una grande squadra, quelli della stagione 1991-92, che coincise con l'inizio dello strapotere del Milan di Capello, davanti al quale la pur munita armata doriana potè ben poco. L'arrivo del brasiliano Silas al posto dello sfortunato Mikhailichenko fu sintomatico dell'inversione di rotta. Eppure arrivò sesta, la Samp, e conquistò il diritto a disputare la finale di Coppa dei Campioni, a Wembley contro il Barcellona. Ancora bruciava la sconfitta nella finale di Coppa delle Coppe patita pochi anni prima, ma la sete di rivincita non bastò a consegnare ai ragazzi di Boskov il più prestigioso trofeo continentale. Era la fine di un sogno, e il giocattolo si ruppe irrimediabilmente, complice il male che stava minando il Presidente. Vialli fu ceduto alla Juve, un trasferimento che fece epoca e avrebbe decretato la fine del paradiso doriano, della squadra-simpatia e di tutti gli altri miti che si erano creati attorno al club blucerchiato. Al momento del passaggio in bianconero, il bomber blucerchiato dichiarò: «Abbiamo convenuto che fosse meglio mantenere in A la Samp senza Vialli piuttosto che ritrovarla tra qualche anno con Vialli in Serie B». Tutto crollava, ma il peggio doveva ancora venire. Intanto, anche lo zio Boskov faceva le valige per fare posto al profeta della zona Eriksson. Finché fu in sella Paolo, comunque, i piazzamenti della Doria si mantennero sempre su buoni livelli, e altri campioni ebbero il privilegio di indossare la maglia blucerchiata, come Gullit, Jugovic e Platt. Il 14 ottobre 1993, però, il presidentissimo, l'uomo che aveva creato un sogno partendo dalla B, si spense. Con lui morì definitivamente la Samp che si era fatta amare da tutta Italia.



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MessaggioInviato: mar 8 lug 2014, 11:34 
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Preso da qui:

http://www.storiedicalcio.altervista.or ... _1991.html


Vi consiglio di guardarlo per bene questo sito, potrebbe dare molti spunti interessanti

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Anche se si dimenticano di dire che nel '94 la Sampdoria arrivò terza in classifica e vinse la sua quarta Coppa Italia, inoltre l'anno seguente raggiunse la semifinale di Coppa delle Coppe persa contro l'Arsenal.

Vi linko un paio di cose interessanti sullo scudetto:

http://doria.altervista.org/1991/samp-91-scudetto.htm



Più avanti posterò in un altro topic le partite più belle della storia della Samp, soffermandomi di più ovviamente sulle stagioni dal 1979 al 1998.

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Quel Samp-Doria dà ì brividi alla schiena... Vi par di sentirli i tifosi gridare: "Forza Samp-Doria "?

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wonderwall ha scritto:
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rko90 ha scritto:
wonderwall ha scritto:
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Quel Samp-Doria dà ì brividi alla schiena... Vi par di sentirli i tifosi gridare: "Forza Samp-Doria "?

Meglio solo "forza Doria!" :8)

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Lei non si intrometta.. quando verrà fondata la Malnati Fc la ricontatteremo!

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wonderwall ha scritto:
rko90 ha scritto:
wonderwall ha scritto:
Cita:
Quel Samp-Doria dà ì brividi alla schiena... Vi par di sentirli i tifosi gridare: "Forza Samp-Doria "?

Meglio solo "forza Doria!" :8)

Te in questo caso non conti :asd

Lei non si intrometta.. quando verrà fondata la Malnati Fc la ricontatteremo!

Sono invidioso :alone

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Marcus ha scritto:
La Samp è la vera squadra di Genova :sisi

Ma anche no :asd
Il prestigio è pari a quello del genoa, sostanzialmente. I grifoni si vantano di aver vinto più scudetti, essere nati prima e portare il nome della città, mentre i cugini di aver vinto il loro in epoca ben più recente, nonchè dei maggiori successi europei (che poi alla fine è solo la coppa coppe del 1990). In pratica, se sia nato prima l'uovo o la gallina :asd


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 Oggetto del messaggio: Re: La Sampdoria di Mantovani
MessaggioInviato: mar 8 lug 2014, 17:42 
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wonderwall ha scritto:
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Quel Samp-Doria dà ì brividi alla schiena... Vi par di sentirli i tifosi gridare: "Forza Samp-Doria "?

Meglio solo "forza Doria!" :8)

Non tutti possono capire


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