E' il 33' del secondo tempo: l'1-1 ancora basta ai brasiliani padroni di casa per laurearsi campioni del mondo. Ma in quel momento accade l'incredibile: l'ala destra uruguayana Ghiggia entra in possesso di palla, punta la porta di Moacyr Barbosa e lo beffa sul primo palo. «Goal per l'Uruguay» dice, incredulo, il radiocronista brasiliano Luiz Mendez. Mancano 12 minuti alla fine. Il Brasile ricomincia ad attaccare, ma non basta: nel Maracanà, fresco di inaugurazione, è stato compiuto il delitto perfetto. L'Uruguay è campione del mondo per la seconda volta dopo il 1930. Il Brasile piange: 39 persone si uccidono, la sconfitta diventa lutto nazionale.
«Tutti hanno la loro irrimediabile catastrofe nazionale, del tipo di Hiroshima. La nostra catastrofe, la nostra Hiroshima, fu la sconfitta contro l'Uruguay del 1950». Così scrive il famoso giornalista brasiliano Nelson Rodriguez. Il Brasile è una nazione giovane: non ha attraversato anni di dure lotte per ottenere l'indipipendenza, non ci sono state battaglie epocali o rivoluzioni di sangue. La storia e la grandezza del Brasile si trovano quasi esclusivamente nel calcio. Non deve stupire così che un evento calcistico venga amplificato all'eccesso, nel bene e nel male. In un'altra Nazione, una sconfitta come quella del Mondiale '50, sarebbe rimasta nei canoni dello sport e basta. In Brasile no.
In Brasile quella partita, quel Mondiale resteranno per sempre impressi nella memoria collettiva, come una colpa dalla quale non potranno mai purificarsi. Non importa che da quel maledetto 16 luglio i brasiliani abbiano vinto 5 titoli mondiali come nessuno; che abbiano dato i natali a quello che forse è il più grande giocatore di ogni tempo; che abbiano rivoluzionato il calcio anche sul piano tattico, proponendo i primi moduli di matrice numerica per suddividere i reparti. «Le glorie calcistiche al Brasile non basteranno mai» scrive il giornalista e storico inglese Alex Bellos. «Possono piangere e strillare, ma ormai la finale del 1950 non la vincono più».
Nulla potrà mai modificare ciò chè stato. Nulla potrà mai cancellare che il primo Mondiale giocato in casa, in un Maracanà costruito apposta per celebrare il trionfo, si sia tramutato in una sconfitta. L'Uruguay, l'Italia, la Germania, l'Inghilterra, l'Argentina, la Francia: tutte le grandi nazionali che hanno organizzato il primo Mondiale in casa lo hanno vinto. Tutte tranne il Brasile.
Gli Anni 40 segnano grandi cambiamenti nel Paese carioca. Sono anni di sviluppo e crescita, si respira ottimismo ovunque. All'approssimarsi dei Mondiali del '50, che la Fifa ha assegnato al Brasile in quanto unica candidata, viene edificato lo stadio più grande del mondo: il Maracanà. Due anni di lavori intensi e faticosi, 10mila operai impiegati come schiavi egizi. Più che uno stadio, il Maracanà diventa un monumento all'umanità, un simbolo del Paese, come la Statua del Cristo di Corcovado o il Pan di Zucchero.
L'esordio del Mondiale, il 24 giugno, contro il Messico, è subito trionfale: 4-0. Poco importa che un Brasile in parte rimaneggiato venga poi bloccato nella seconda partita del girone sul 2-2 da una volitiva Svizzera. Nella terza gara la nazionale sudamericana si impone 2-0 sulla Yugoslavia, dando una lezione di calcio ed esaltando i tifosi: il grande Zizinho segna un gol meraviglioso, prendendo palla sul lato destro del centrocampo, superando un paio di difensori al limite e trovando l'angolino dove il portiere jugoslavo Mrkusic non può arrivare. Inspiegabilmente, l'arbitro annulla. Zizinho non fa una grinza. Nell'azione successiva riprende palla sulla destra, scarta gli stessi difensori e conclude nel medesimo modo: pallone nell'angolino. L'inviato del Corriere della Sera scrive che Zizinho dipinge calcio come Leonardo da Vinci. Zizinho è l'idolo di Pelè. In Brasile è considerato il più grande giocatore a non aver mai alzato al cielo la Coppa del Mondo: non ci sono Leonidas o Zico che tengano.
Così sicuri di sè, così invincibili, i brasiliani avanzano verso la Coppa. Per la prima e unica volta nella storia dei Mondiali, la finale non viene decisa da una partita secca, ma dalla somma dei punti ottenuti in un girone. Oltre al Brasile vi approdano Spagna, Svezia e Uruguay. Il Brasile disintegra svedesi e spagnoli, presentandosi all'ultimo atto contro l'Uruguay forte di 4 punti. Basterebbe un pareggio, uno squallido 0-0 per laurearsi campioni, visto che gli uruguayani avevano sì battuto 3-2 la Svezia, ma erano stati bloccati sul 2-2 dalla Spagna.
Tutto lascia presagire il trionfo. Un giornale di Rio, alla vigilia, pubblica le foto degli 11 giocatori brasiliani e scrive: "Eccoli, i nuovi campioni del mondo". I negozi appendono cartelloni pubblicitari, l'ufficio postale emette francobolli recanti le immagini dei futuri vincitori. Prima di scendere in campo, il sindaco di Rio, Angelo Mendes de Moares, saluta così i giocatori brasiliani: «Gloria a voi, che tra poche ore sarete proclamati campioni». Una sicurezza tale da diventare presunzione. E la presunzione è un peccato che si paga carissimo.
Il Brasile parte attaccando, incitato dal grido di 200mila spettatori (record assoluto nella storia per una partita di calcio). Al 2' della ripresa Friaça realizza l'1-0: sembra fatta. Gli uruguayani però sono maestri di tattica e di intelligenza. Ancora più degli italiani, più di chiunque altro. Capiscono che per avere qualche possibilità di ribaltare il risultato, devono continuare a difendere la sconfitta. «I nostri dirigenti sarebbero stati contenti se avessimo perso 4-0» dirà poi il capitano uruguagio Obdulio Varela. «Ma io quella partita volevo vincerla. Non ci sentivamo inferiori al Brasile». E infatti non lo erano. Varela è un mediocentro con pochi rivali al mondo; Schiaffino è una delle figure più rilevanti del calcio mondiale di ogni epoca; Ghiggia, un'ala destra rapida e sgusciante come nessuno. L'Uruguay continua ad aspettare la cicala brasiliana nella propria metàcampo, ma appena può, prova a far male in contropiede. In una di queste azioni, al 21', Varela pesca lo scatto di Ghiggia, il cross dell'ala trova Schiaffino al centro: arresto, controllo, tiro fulminante, gol. E' 1-1. Lo stadio è ammutolito. Conviene forse difendere il risultato? Macchè. I brasiliani attaccano, sempre e comunque. Sarà solo con l'avvento di un allenatore di origine italiana, Vicente Feola, che capiranno che bisogna anche difendersi: a quel punto, quando all'estro sontuoso dei propri interpreti sul fronte offensivo, uniranno quel minimo di acume tattico indispensabile, inizieranno a inanellare trofei iridati come nessun altro. Ma non è ancora quello il momento. L'Uruguay, paziente, attende. E al 33' un altro contropiede porta al 2-1 di Ghiggia. Nei successivi 12' lo stadio resta in silenzio, proprio quando i calciatori brasiliani avrebbero maggior bisogno di incoraggiamento. «Solo tre persone sono riuscite a far tacere il Maracanà: Frank Sinatra, papa Giovanni Paolo II e io» dirà, con un pizzico di orgoglio, Alcides Ghiggia.
Il portiere, Moacyr Barbosa, diventa il capro espiatorio della sconfitta. E' un ottimo giocatore, tanto che viene eletto «miglior estremo difensore del Mondiale», ma da quel giorno la sua vita diventa un inferno. Il tiro di Ghiggia lo sorprende sul primo palo: Barbosa ha le sue colpe, ma non è nemmeno una di quelle papere da commedia... Per alcune settimane, non può uscire di casa: rischia il linciaggio, il ludibrio pubblico. Fioriscono leggende su di lui: dicono che porti male e, prima del Mondiale '94, gli vietano di entrare al campo di allenamento della nazionale. In un supermercato, nel 1970, una donna lo indica e dice al figlioletto con tono stizzito: «Lo vedi, quell'uomo lì? E' quello che ha fatto piangere tutto il Brasile». Barbosa vive da appestato: «In Brasile la punizione massima per un criminale è 30 anni. Io sto pagando da tutta la vita per una colpa che non ho commesso».
Essendo un Paese che vive di superstizioni, non solo Barbosa viene messo sul banco degli imputati. Un altro motivo della disfatta è individuato nella divisa ufficiale. La maglia della nazionale è bianca con il colletto blu. La federazione la bandisce e indisce una gara d'appalto per trovare i nuovi colori sociali. Il disegno che vince è quello di un giovane studente e illustratore, Aldyr Garcia Schlee: maglia gialla con maniche e colletto verde, pantaloncini blu striati di bianco, calzettoni bianchi con finiture verdi e gialle. Piace perché unisce tutti i colori della bandiera e trasmette un profondo senso di gioia. Diventa la nuova uniforme calcistica e spopola in tutto il mondo. Tempo dopo si scoprirà che Aldyr è un mezzosangue, vive al confine tra Brasile e Uruguay ed è tifoso accanito della Celeste. Forse è stato il destino a volere che fosse un filo uruguayano a indicare ai brasiliani la strada per trovare finalmente il successo.
_________________ «...ricorda che se anche i nostri dirigenti ci danno per spacciati e dicono che sarebbero contenti anche se perdessimo 4-0, a me non interessa. Io oggi scendo in campo per vincere e voglio che quelli che scendono con me oggi abbiano lo stesso obiettivo. Se vedo qualcuno che non combatte questa battaglia, alla fine della partita dovrà vedersela con me. Fatti forza Ruben, quei duecentomila là fuori non giocano, guardano solamente».
Il capitano Obdulio Varela al giovane Ruben Moran prima della finale del Mondiale 50, Brasile 1 Uruguay 2
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