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La Favola di Maradona di Mimmo Caratelli.

1° puntata.



Raccontiamoci la tua favola, Diego, per stare ancora insieme. Dall’inizio? Dall’inizio.
I primi giorni del Pelusa. Ti chiamano così per l’esagerata peluria in testa, l’annuncio dei riccioli da scugnizzo. Gli annunci sono tanti quando viene al mondo il primo figlio maschio di mamma Tota e di papà Chitoro. 30 ottobre 1960, una domenica. E in quale altro giorno potevi nascere se non nel giorno di festa dei tuoi gol e delle tue piroette?
Nel vecchio Policlinico di Buenos Aires, un vagito forte e chiaro. “Ehi, mondo, sono qua”. Alle sette e cinque minuti del mattino. Bene, ora andiamo a casa. Andiamo a Villa Fiorito, alla periferia sud della città, dove ci sono strade in terra battuta e, forse, una casa senza gas e senza luce, e ci sono tante sorelle. Figuriamoci la festa per il primo “nigno”. Nonna Salvadora fuma la pipa.
Papà Chitoro si è appena trasferito a Villa Fiorito da Esquina, nella provincia di Corrientes, dove aveva una barca e pescava i dorados. Quando crescerai ti racconterà di quei giorni sul mare e ci tornerete insieme. In casa bazzica zio Cirillo che ha fatto il portiere di calcio. Come abbia fatto, non si sa. Lo chiamano “il tappo”. Comunque, ha giocato in porta nell’Estrella Roja di Villa Fiorito. Questo è certo. Ha una passione per l’Independiente perché il quartiere di Avellaneda è vicino e lui ci va a vedere le partite. Ma anche papà Chitoro ha giocato al calcio, ala destra ad Esquina.
Stai dritto e tiri calci alla prima palla. Te la regala tuo cugino Alberto Zàrate, detto Beto. A palla giocano tutti i bambini del quartiere. Tu ancora non ti sveli perché ti piace andare a vedere passare i treni e rubare zucche nell’orto del vicino. Monello, non c’è che dire.
Sulle strade in terra battuta di Villa Fiorito, in quelle vie Azamor e Mario Bravo, fai i primi dribbling. Hola, Dieguito. Tutti i ragazzini del quartiere sognano di diventare un giorno come Hector Yazalde che abita vicino Villa Fiorito ed è un asso dell’Independiente. A scuola ti piace la matematica e tutti dicono che, da grande, farai il ragioniere. Poi ti basterà un solo numero, il numero 10, per essere il più grande.
C’è una grande povertà a Villa Fiorito, ma anche una grande allegria. Giocando a palla, fai una smorfia curiosa: tieni la lingua fuori dai denti come se volessi assaporare il gioco e la vita.

Papà Chitoro ti porta a vedere il Boca. E’ storia nota. Prendevate il tram e andavate alla Bombonera, due posti nella curva nord. Due giocatori fanno impazzire la folla e tu li guardi incantati. Uno è Angel Clement Rojas. Ha una finta malandrina nei fianchi e va in gol come un ballerino. L’altro è Pianetti. Lo chiamano “Pocho” e, dentro le scarpette, ha una carica di dinamite. Ti innamori dei due campioni e del Boca.
Nessuno ci crederebbe, ma il tuo vero idolo abita a Villa Fiorito. E’ un ragazzo come te, si chiama Goyito Carrizo. Nessuno, nel quartiere, è più bravo di Goyito col pallone. Questo lo dicono tutti. Ma Goyito dice che il più bravo sei tu. Lo dice a tutti: “Il più bravo del quartiere è il Pelusa”.
Goyito va a fare un provino tra le “cebollitas” dell’Argentinos Juniors. Ce lo porta un impiegato di banca quarantenne, don Francisco Corneo, che dopo la banca gira per le periferie di Buenos Aires a fiutare il talento nascosto dei ragazzini che giocano al pallone per le strade. Goyito piace, può giocare con le “cebollitas” e lui ripete anche ai dirigenti dell’Argentinos: “C’è un ragazzino più bravo di me a Villa Fiorito. E’ il più bravo di tutti. E’il Pelusa ".

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GULLIT:"Quando vedo Messi penso che è un grande calciatore ma è protetto: dagli arbitri, dalle telecamere, dal regolamento. Messi può limitarsi a dribblare. Diego doveva saltare alto così, non per fare dribbling ma perché volevano spezzargli le gambe".


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MessaggioInviato: gio 13 mag 2010, 16:31 
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epico ha scritto:
La Favola di Maradona di Mimmo Caratelli.

1° puntata.



Raccontiamoci la tua favola, Diego, per stare ancora insieme. Dall’inizio? Dall’inizio.
I primi giorni del Pelusa. Ti chiamano così per l’esagerata peluria in testa, l’annuncio dei riccioli da scugnizzo. Gli annunci sono tanti quando viene al mondo il primo figlio maschio di mamma Tota e di papà Chitoro. 30 ottobre 1960, una domenica. E in quale altro giorno potevi nascere se non nel giorno di festa dei tuoi gol e delle tue piroette?
Nel vecchio Policlinico di Buenos Aires, un vagito forte e chiaro. “Ehi, mondo, sono qua”. Alle sette e cinque minuti del mattino. Bene, ora andiamo a casa. Andiamo a Villa Fiorito, alla periferia sud della città, dove ci sono strade in terra battuta e, forse, una casa senza gas e senza luce, e ci sono tante sorelle. Figuriamoci la festa per il primo “nigno”. Nonna Salvadora fuma la pipa.
Papà Chitoro si è appena trasferito a Villa Fiorito da Esquina, nella provincia di Corrientes, dove aveva una barca e pescava i dorados. Quando crescerai ti racconterà di quei giorni sul mare e ci tornerete insieme. In casa bazzica zio Cirillo che ha fatto il portiere di calcio. Come abbia fatto, non si sa. Lo chiamano “il tappo”. Comunque, ha giocato in porta nell’Estrella Roja di Villa Fiorito. Questo è certo. Ha una passione per l’Independiente perché il quartiere di Avellaneda è vicino e lui ci va a vedere le partite. Ma anche papà Chitoro ha giocato al calcio, ala destra ad Esquina.
Stai dritto e tiri calci alla prima palla. Te la regala tuo cugino Alberto Zàrate, detto Beto. A palla giocano tutti i bambini del quartiere. Tu ancora non ti sveli perché ti piace andare a vedere passare i treni e rubare zucche nell’orto del vicino. Monello, non c’è che dire.
Sulle strade in terra battuta di Villa Fiorito, in quelle vie Azamor e Mario Bravo, fai i primi dribbling. Hola, Dieguito. Tutti i ragazzini del quartiere sognano di diventare un giorno come Hector Yazalde che abita vicino Villa Fiorito ed è un asso dell’Independiente. A scuola ti piace la matematica e tutti dicono che, da grande, farai il ragioniere. Poi ti basterà un solo numero, il numero 10, per essere il più grande.
C’è una grande povertà a Villa Fiorito, ma anche una grande allegria. Giocando a palla, fai una smorfia curiosa: tieni la lingua fuori dai denti come se volessi assaporare il gioco e la vita.

Papà Chitoro ti porta a vedere il Boca. E’ storia nota. Prendevate il tram e andavate alla Bombonera, due posti nella curva nord. Due giocatori fanno impazzire la folla e tu li guardi incantati. Uno è Angel Clement Rojas. Ha una finta malandrina nei fianchi e va in gol come un ballerino. L’altro è Pianetti. Lo chiamano “Pocho” e, dentro le scarpette, ha una carica di dinamite. Ti innamori dei due campioni e del Boca.
Nessuno ci crederebbe, ma il tuo vero idolo abita a Villa Fiorito. E’ un ragazzo come te, si chiama Goyito Carrizo. Nessuno, nel quartiere, è più bravo di Goyito col pallone. Questo lo dicono tutti. Ma Goyito dice che il più bravo sei tu. Lo dice a tutti: “Il più bravo del quartiere è il Pelusa”.
Goyito va a fare un provino tra le “cebollitas” dell’Argentinos Juniors. Ce lo porta un impiegato di banca quarantenne, don Francisco Corneo, che dopo la banca gira per le periferie di Buenos Aires a fiutare il talento nascosto dei ragazzini che giocano al pallone per le strade. Goyito piace, può giocare con le “cebollitas” e lui ripete anche ai dirigenti dell’Argentinos: “C’è un ragazzino più bravo di me a Villa Fiorito. E’ il più bravo di tutti. E’il Pelusa ".


Perche' non continui?

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ecco, ce l’ha Maradona. Lo marcano in due . Schiacca la palla Maradona. Parte sulla destra il genio del calcio Mondiale . Puo’ passarla a .Burruchaga .sempre Maradona.. genio, genio, genio c’e, c’e’, c’e’ . Gooooooool .. voglio piangere Dio Santo, viva il calcio…Golaaaaaazo….Diegooool…Maradona…C’e’ da piangere, scusatemiMaradona in una corsa memorabile , nella miglior giocata di tutti i tempi ….aquilone cosmico……da che pianeta sei venuto…..per lasciare lungo il cammino cosi’ tanti inglesi?....


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non ho visto risposte ma ora continuo....

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2° PUNTATA.


Hola, Diego. Andiamo a raccontarti ancora. Ricordi, aneddoti. Era il 1992, febbraio. Tu eri al mare in Patagonia, lontano, lontano, a pescare quei piccoli pescecani che sono i “tiburon”. In una saletta Rai di viale Mazzini a Roma, io assistevo al montaggio del documentario voluto da Gianni Minoli per “Mixer”, realizzato da Enrico Deaglio con la telecamera di Roberto Pistarino. Il documentario aveva questo titolo: “Maradona, le gambe che hanno sconvolto il mondo”. Mi disse Minoli: “E’ un atto dovuto a un talento unico, patrimonio non solo dei tifosi, arte pura del football, giocoliere, incantatore, messaggero di gioia sui sentieri felici del gol e negli stadi della fantasia”.
E’ stato in quella occasione che, nella suggestione di una pellicola incerta, ti ho visto bambino, tu e un pallone naturalmente. In bianco e nero. A Villa Fiorito. I tempi che andavi a scuola al Remedios de Escalada de san Martìn. Ti ho visto palleggiare nel cortile di terra battuta di casa tua. Una casa di mattoni dopo che eri stato in una casa approssimativa di lamiera e legno. Ti ho visto col tuo amico Negro che fabbricava e faceva volare aquiloni. Ti ho visto palleggiare con l’arancia della leggenda.
Magrolino e con le gambe buone, così eri. Mamma Tota non ti faceva mancare la bistecca. Era solo per te. Perché eri il primo maschio. Ana, Kity, Lili, Mary e Caly, le sorelle, avevano un cibo più leggero. Poi vennero i fratelli Raul detto Lalo e Hugo, “il turco”. Ma sempre la prima bistecca era per te. Erano i tempi che papà Chitoro aveva smesso di fare il barcaiolo a Esquina, abbandonando le chiatte da trasporto di don Lupo Galarza, e lavorava dodici ore al giorno, dalle quattro del mattino al pomeriggio, al mulino Tritumol, una industria chimica che triturava ossa.
Ho letto nel tuo libro: “A me è venuta la pelle dura per quello che ho vissuto a Villa Fiorito”. Povero, ma tosto. E le infinite partite sul campaccio di terra di Las Siete Canchitas con i tuoi amici Goyo Carrizo e Montanita a consumare scarpe e a inzupparti di sudore. Per Goyo non c’era nessuno bravo come te a giocare a pallone, anche se spesso era solo un pallone rotto.
Bene. Goyo ha detto ai dirigenti dell’Argentinos Juniors che tu sei un fenomeno. A nove anni. E quelli gli hanno detto: “Porta il fenomeno con te”. Quelli sono don Francisco Gregorio Cornejo, impiegato al Banco Hipotecario Nacional di Buenos Aires e talent-scout di strada, e il suo aiutante José Emilio Trotta che è per tutti don Yayo. Sono i responsabili delle “cebollitas” dell’Argentinos Juniors, una banda di ragazzi del ’60, la tua età. Mamma Tota dice che puoi andare e papà Chitoro che deve dire? Non dice nulla e questo vuol dire che ci vai.
Fai il viaggio più lungo della tua vita prima che gli aerei ti porteranno dal nuovo mondo al vecchio e viceversa. Ci vogliono due autobus per arrivare a Las Malvinas, il campo d’allenamento dell’Argentinos. Ci vai in un giorno di pioggia e incontri gli altri ragazzini che sono arrivati sul camioncino di don Yayo. Hanno tutti un soprannome. Osvaldo Dalla Buona è Veneno, Oscar Trotta lo chiamano Pando, Daniel Ojeda è il Chino, Claudio Rodrigez è il Mono, la scimmia, e Delgado lo chiamano La Polvere. Sei il più basso di loro. Di una cosa si accorgono tutti: di piede, sei mancino. Dice Cornejo: “Vedo che il destro ti serve solo per camminare, ma a questo porremo rimedio”. Poi dirà a un amico: “Il nano è veramente un fenomeno. L’ho capito dopo dieci minuti vedendolo giocare. Si muove con una grazia e un’autorità fuori dal comune per uno della sua età”.
Ti prendono nelle “cebollitas”, la squadra dei più piccoli fra le formazioni giovanili dell’Argentinos. Giochi e il talento ti preme dentro e vuole uscire fuori. Una la combini
subito, a dieci anni. Alla domenica fai il raccattapalle per la prima squadra e sei allo stadio per Argentinos-Boca. Un pallone come quelli della prima squadra non l’hai mai avuto tra i piedi. Nell’intervallo della partita te ne impossessi sotto gli occhi di don Yayo. E cominci uno dei tuoi palleggi infiniti, sinistro, testa, spalla, l’esterno della coscia, ginocchio. Il pallone non tocca mai terra. Attiri l’attenzione. Ti seguono dagli spalti.
Le squadre ritornano in campo, ma la gente ha occhi solo per te. Grida: “Olè, olè”. Stai palleggiando da un quarto d’ora e la partita deve riprendere. La folla urla: “Rimani, rimani”. E’ un bel problema. “Ancora, ancora” urla la gente dello stadio. Non può durare.
Fai un colpo di tacco e col sinistro già magico indirizzi il pallone a don Yayo che lo prende e ti sorride. Alla prossima puntata, pibe.

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3° PUNTATA.

Ojeda in porta. Linea difensiva con Trotta, Chaile, Chammah e Montana. Centrocampisti Lucero, Dalla Buona, Maradona. In attacco Duré, Carrizo e Delgado. Maglia rossa e ragazzi di undici anni, nel 1971. Sono le “cebollitas”, la ricchezza giovane dell’Argentinos Juniors del presidente Prospero Consoli, uno che ha fatto i soldi con unaimpresa di pompe funebri. Strapazzano tutti gli avversari. Giocano al sabato e fanno cinquemila spettatori, un’enormità. La gente dice: “Tutti i sabato è così quando gioca lui”. Lui è il pibe Diego Armando Maradona. Se ne accorge il “Clarin” che scrive: “E’ spuntato un ragazzo di capacità e classe di rompenti”.
Arrivano le televisioni. Canal 9 vuole filmare i tuoi famosi palleggi senza far toccare terra al pallone. Dopo un’ora, il cameraman ti dice: “Diego, basta. Il nastro è finito”. Pipo Mancera, famoso teleconduttore, ti invita alla sua trasmissione “Sàbados Circulares” e ti fa palleggiare in studio, in diretta. Le “cebollitas” sono un tornado. In tre anni, mettono a segno 136 vittorie di file.
Sei il beniamino di tutti i compagni. Hallar, “il turco”, minaccia di prendere a pugni tutti quelli che non ti passano la palla. Il magazziniere Miguel Di Lorenzo ti vuole bene come fossi suo figlio. “Que pasa, Galindez?” gli fai. Lo chiami Galindez perché Di Lorenzo somiglia proprio al pugile argentino.
Le tue “cebollitas” battono a ripetizione quelli del River. Fioccano le vittorie: 3-2, 7-1, 5-4. Nell’ultima, fai saltare il pareggio prendendo d’infilata sette avversari, li dribbli tutti come farai da grande contro gli inglesi a Città di Messico, e segni di delizia. Hai 13 anni. Il presidente del River offre due milioni di pesos per averti. Papà Chitoro dice: “Diego è felice dov’è”. Ti accompagna agli allenamenti. Dovete prendere due autobus, il 49 e il 28, per arrivare a Las Malvinas o al Parco Saavedra dove si allenano le “cebollitas”. Sul secondo autobus, papà Chitoro s’addormenta. Ha appena finito di fare le sue dodici ore al mulino Tritumol.
Hola, Diego. Quanti ricordi. Un ricordo malandrino contro il Velez. L’arbitro ti convalida un gol di mano, forse il primo gol di mano della tua storia, ma ti dice di non farlo più. “Grazie arbitro, ma non prometto niente” è la tua sfacciata risposta. Con un altro arbitro ti va male. Lui è stato un disastro in campo e tu alla fine gli dici: “Arbitro, lei è un fenomeno. Dovrebbe dirigere incontri internazionali”. Quello è permaloso e ti fa appioppare cinque turni di squalifica.
Ti pavoneggi nei pantaloni turchesi di velluto a zampa d’elefante. Hai 14 anni, quando dicono a Sivori: “In un campetto qui vicino c’è un tizio che si chiama Maradona. Vallo a vedere”. Sivori allena il River Plate. Il campetto è vicino allo stadio del River. Sivori viene a vederti. E’ il 1974. “Baciato dalla classe, velocità e fantasia, e una naturalezza impressionante” dice di te. Un giornalista, che avrei voluto essere io, scrive: “Quand’anche Maradona si presentasse a una festa in smoking bianco, e gli tirassero un pallone infangato, non ci penserebbe due volte a stopparlo di petto”.
Piangi quando perdi a Cordoba la finale nazionale giovanile. Un avversario viene a consolarti. “No llorés, Diego, que vos vas a ser el mejor diez del mundo”. Non piangere, Diego, perché diventerai il miglior numero dieci del mondo. Ti vogliono tutti bene. Anche il dottor Roberto Cacho Paladino dell’Argentinos che ti dispensa vitamine e ti irrobustisce. L’Argentinos ti fitta un appartamento al numero 2746 di Calle Argerich. Ci stai bene con mamma Tota, le sorelle non sposate, i tuoi due fratelli. Fai dipingere la tua stanza tutta d’azzurro, il colore della squadra della città che ti amerà più di tutti. Metti i dischi di Julio Iglesias e di Valeria Lynch. C’è una chiesa che ti attira, quella della Vergine Bambina. Vai sempre a Villa Fiorito a guardare la tua vecchia casa di mattoni e a far baldoria con gli amici del quartiere, con zio Cirillo e il cugino Beto che sono sempre là.
Con la scuola chiudi al terzo anno delle commerciali. E’ il 1976. In calle Argerich abita la famiglia di un tassista, don Coco Villafane, con la moglie donna Pochi e la figlia Claudia. La ragazza ti mangia con gli occhi. Tu fai finta di niente. Poi una sera di ottobre la inviti a ballare. Ci andate con la tua Fiat 125 rossa. Vi innamorate mentre gira un disco di Roberto Carlos. La canzone non me la ricordo, ma tu sì. La ricorderai sempre.
Intanto, sono avvenute altre cose sui campi di calcio. Ne parleremo la prossima volta.

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Vamos a ganar, Dieguito. Tutto succede molto rapidamente e il ragazzo che sei deve crescere in fretta. Juan Carlos Montes, allenatore della prima squadra dell’Argentinos Juniors, ti tiene d’occhio. Hai sedici anni e un martedì di fine ottobre lui ti dice: “Domani vai in panchina”. Stenti a crederlo. Non ci dormi la notte.
E’ il 20 ottobre 1976, un mercoledì e un pomeriggio molto caldo a Cordoba, terza città argentina, tutta all’interno, lontana dal mare, due milioni di abitanti. L’Argentinos Juniors affronta il Talleres. Sei in panchina. La partita non va bene e la cancha di Cordoba è un inferno. L’Argentinos va sotto di un gol. Dopo pochi minuti della ripresa, Montes ti dice: “Vai in campo”. Ti tremano le gambe, è normale. Sostituisci Giacobetti. Sulla tua maglia rossa c’è il numero 16. L’ultima cosa che ti dice Montes è questa. “Se ci riesci, tira una cannonata”. Come se fosse facile.
In campo scopri una solidarietà commovente. I “grandi” ti danno tutti una mano, ti incoraggiano. Fai un dribbling, pianti il tuo avversario, la palla gli è passata tra le gambe, tiri: fuori! Qualche cosa non ti riesce. Normale, pibe, è il debutto in prima squadra e il Talleres è uno squadrone. E’ l’addio al periodo fantastico delle “cebollitas”. Il calcio dei “grandi” sarà duro e spietato. Ma tutti aspettano le tue delizie.
Giochi altri spezzoni di partite e, contro il Newell’s Old Boys, stai in campo tutti e 90 i minuti. E’ un bel giorno. E arrivano i gol in prima squadra: per cominciare, due reti al San Lorenzo di Mar del Plata il 14 novembre 1976. Hasta la vista, Dieguito. Il tango è cominciato.
E arriva il Flaco. Cesar Luis Menotti non ha ancora 40 anni, ma è già un mito. Sarà per quella sua faccia lunga da pirata incorniciata dai capelli abbondanti, per lo sguardo che trapassa uomini e cose, per quel fisico longilineo, essenziale, magro, da Savonarola del pallone. Un tenebroso affascinante. E’ alla guida della nazionale dal 1974. Ti ha seguito, ti chiama.
Vola, Dieguito, vola. In allenamento, vedi i “draghi”, Kempes e Passarella. E’ il febbraio del 1977. L’Argentina gioca un’amichevole alla Bombonera contro l’Ungheria. El Flaco ti porta in panchina. Ti dice: “Se la squadra segna, è possibile che giochi”. Non c’è in campo un tifoso più tifoso di te. Vai, Argentina, vai.
E va bene. E’ cominciata la ripresa e i biancocelesti sono in vantaggio per 3-0. Tutto gira per il verso giusto. Il Flaco ti guarda. E’ il momento di andare in campo. Entri al posto di Luque, un altro “drago”, un filibustiere del gol. I “draghi” ti adottano subito. Gallego e Carrascosa, soprattutto. Ti passano la palla. Com’è bella la vita. Conquisti la nazionale quando non hai ancora 17 anni. Stai spiccando il volo, Dieguito.
L’Argentina ti guarda, l’Argentina ti ammira. Che cosa non sei capace di fare col tuo piede mancino! Ricami, inventi, stupisci. E vai in gol. Ventidue reti nel campionato nacional, quattordici in quello metropolitano. Sono i timbri della tua classe.
Capocannoniere. Prendi le prime botte, ma sai saltare le gambe assassine che tranciano l’erba e ti mancano. In un'amichevole con l’Argentinos a Barcellona, Zuviria ti massacra e lo stesso pubblico spagnolo lo fischia. Sei agile, scansi artigli e durlindane. Sei Diego Maradona.
Sei pronto per il Mondiale del 1978 che si gioca in Argentina. Ci conti. Ma quando il Flaco deve chiudere la lista dei 22, si accorge che ha a disposizione cinque numeri 10: Villa, Alonso, Valencia che gli piace più di tutti, Bochini e tu, così giovane e così estraneo a ogni cricca da restare fuori. E’ la vita. Tu puoi aspettare, ma ti viene una rabbia grande. Piangi come un bambino, e non sei forse ancora un bambino? Vai a vedere le partite mondiali con don Coco Villafane. Ci andate col suo taxi. E col suo taxi strombettante per Buenos Aires dopo la vittoria dell’Argentina, per la prima volta campione del mondo coi gol di Kempes, con Ardiles e Bertoni, con Passarella e Luque. Sei felice, ma covi una vibrante rivincita.
Dovrai attraversare mezzo mondo per farlo, ma laggiù, a Tokyo, il mondo te lo mangerai. E’ quello che vedremo la prossima volta.

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Il Flaco non ti mollerà più. Sei nel giro stabile della nazionale, Diego. I campioni del mondo del 1978 si concedono una partita di gloria. Affronteranno, nello stadio del River, il Resto del mondo.
E’ il 25 giugno 1979. Stavolta ci sei. Formazione biancoceleste: Fillol; Olguin, Tarantini; Galvan, Gallego, Passarella; Houseman, Ardiles, Luque, Maradona, Valencia. La maglia numero 10 è tua. Il Resto del mondo l’allena l’italiano con la pipa, Enzo Bearzot. Ci stanno dentro Paolo Rossi, Krol, Platini, Zico. Ti marca Tardelli.
Sei il meraviglioso funambolo che porta in vantaggio l’Argentina. Un gollazo al brasiliano Leao. Dai spettacolo. Ma Galvan fa autogol e Zico regala la vittoria al Resto. Il “Clarin” esce con questo titolo: “La fiesta fue de Argentina y el resultado para el Resto del mundo”. Pazienza.
C’è il Flaco che vuole vittorie. La nazionale maggiore, dopo il mondiale vinto, dà poche soddisfazioni. Vediamo coi ragazzini. A Tokyo è in programma il Torneo mondiale juniores. Hola, Diego. In tre anni hai segnato 73 gol. Sei il miglior giocatore sudamericano. Sei la “stella” della nazionale dei minori di anni venti. Proviamo a fare bingo.
Tokyo, settembre 1979, è il tuo trionfo. La piccola Argentina vola. Sei il capitano. La dirigi e la trascini come un veterano. Fai gol e fai fare gol. Fai le suggestive veroniche dei grandi assi. José Maria Munoz, il telecronista più grosso e più pazzo di football che si sia mai visto e sentito, urla il tuo nome per l’emittente Rivadavia. Maradona, Maradona, Maradona. Le partite, in diretta, sono diffuse in Argentina alle quattro del mattino. Li svegli tutti. Svegli anche Claudia. Per lei eri il gran capitano.
Trio d’attacco stupendo: Barbas, Ramòn Diaz, che è la nuova “stella” del River, e Diego Armando Maradona, il tesoro dell’Argentinos Juniors. Con l’Indonesia è una passeggiata: 5-0 e doppietta personale. 1-0 alla Jugoslavia. 4-1 alla Polonia e firmi un gol. 5-0 all’Algeria e il Flaco ti ha fatto riposare, piangi da matto nello spogliatoio.
Non vuoi riposarti mai. 2-0 all’Uruguay in semifinale, rete di Diaz e gol tuo, di testa. I guaglioni di Montevideo picchiano, la loro è una “scuola” di duri, gli fai un gol salvando le gambe.
Finalissima con l’Urss, campione in carica. Duri i russi, ma non cattivi come gli uruguayani. Le tue delizie li ammansiscono. Ma quelli vanno in vantaggio, maledizione. Pareggia Alves su rigore. La paura va via. Dai a Diaz la palla del sorpasso, un invito a nozze. Poi, dal tuo scrigno, tiri fuori la magìa del calcio di punizione. Finisce 3-1.
I giapponesi organizzano una scenografia da brividi. Spengono tutte le luci dello stadio e lasciano che un solo fascio luminoso ti segua con la squadra in un memorabile giro del campo. Il Flaco si coccola una vittoria meravigliosa. Sei il miglior giocatore del torneo e quel monumento vivente di Joao Havelange, presidente della Fifa, ti consegna la coppa. José Maria Munoz continua a gridare: Maradona, Maradona, Maradona.
Hai vinto il tuo mondiale. Ritorno trionfale a Buenos Aires. Lo Sheffield United chiede al presidente Consoli quanto costi: il padrone dell’Argentinos spara un miliardo e 200 milioni, il club inglese si ritira annichilito. Il Barcellona offre due miliardi. Ma il presidente Grondona blocca ogni espatrio in vista dei Mondiali del 1982 in Spagna.
Ti ricordi, Diego, il premio che ti concedesti? Andiamo al mare, dicesti a tutta la tua famiglia. Giorni felici sulla spiaggia di Atlàntida, in Uruguay. E a papà Chitoro dicesti: “Hai cinquant’anni, hai lavorato duro sempre, ora smettila. Ora tocca a me”. Grande campione, splendido figlio.

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Hola, nene. Il 1980 è l’ultimo anno nell’Argentinos Juniors. “Los bichos”, le bestiole, così chiamano i suoi giocatori. Segni il gol numero 100 contro il San Lorenzo. Un difensore matto del Colo Colo, in un’amichevole a Santiago del Cile, all’ultimo minuto quasi ti spacca il ginocchio destro. Devi andare all’ospedale, in ambulanza.
Il gioco si fa duro, la fanciullezza è alle spalle. Hai solo vent’anni, ma sei il bersaglio di tutti. Jorge Cyterszpiller coordina le giovanili dell’Argentinos, ti ronza attorno, avete fatto amicizia e un giorno gli dici: “Ehi, zuccone, perché non ti occupi delle mie cose?”. Detto fatto. Jorge è il tuo primo manager, è anche un amico. Spesso vai a dormire a casa sua, a La Paternal. Giocate a scarabeo, sei uno di famiglia.
All’Argentinos le cose non vanno bene. Sbagli un rigore e insultano tuo padre. Questo non lo sopporti. Papà Chitoro è il tuo vecchio, l’uomo che ha rinunciato alle barche per lavorare duro al mulino Tritumol, dodici ore al giorno, per l’immensa famiglia che ha sulle spalle, otto figli.
Vuole far soldi l’Argentinos e tu sei un vero tesoro. Il presidente del River, Aragòn Cabrera, ti vuole nel suo club. L’Argentinos chiede tre milioni di dollari, la tua quotazione sale ogni anno, e ora sei campione del mondo juniores dopo l’impresa di Tokyo. Ma il River non ti piace e papà Chitoro ti racconta d’avere sognato che giocavi nel Boca Juniors. E’ stata la vostra squadra, il Boca, quando andavate a vederla giocare alla Bombonera prendendo il tram, e tu eri solo un ragazzino.
Ti piace il Boca e pensi proprio d’andarci. Lavori di cervello e inventi una bugia per i giornalisti. “Non firmo per il River perché mi ha chiamato il Boca”. Non è vero niente, ma al Boca si eccitano. Non gli pare vero di averti. Vuoi proprio andarci? E tu gli dici di sì.
Il Boca è tra le squadre più popolari d’Argentina, fondato dal siciliano Esteban Baglietto quand’era il 1905, nel rione dei genovesi emigrati a Buenos Aires. E si chiamò Boca perché ebbe la prima sede sulla darsena allo sbocco (boca) del Riachuelo, un fiumiciattolo che andava a perdersi nel Rio de la Plata, l’estuario più largo del mondo, fino a 220 chilometri fra la riva argentina e quella uruguayana, col grande porto di Buenos Aires aperto sull’oceano.
Curiosamente, la squadra prese i colori dalla bandiera della prima nave che i fondatori videro nel Rio: era svedese e i colori furono giallo e blu. Così nacque la maglia blu con la fascia orizzontale gialla.
Era un rione di matti la Boca, artisti e prostitute, e lavoratori portuali. La Bombonera accrebbe il mito della squadra di calcio. Costruita nel 1938, quando sorse stretta fra le povere case di lamiera del quartiere, trasferita nel 1957 al centro del quartiere, ristrutturata nel 1996 per 80mila spettatori, le pareti esterne decorate dall’artista plastico Pérez Celis con la storia della società di calcio e del rione. Da ragazzo, ti mancava il fiato a vederla. Urlava la folla, definita “la doce”, il dodicesimo uomo in campo: “Ogni giorno ti voglio più bene, Boca Juniors. Sei un sentimento, non mi posso fermare”. E lo slogan era: “Il Boca è metà Argentina più uno”.
Pancho Varallo ne era stato un formidabile artillero, Piranha Sarlanga il centravanti più formidabile, Boyè l’ala atomica, Alfredo Rojas il “tanque”, carrarmato, e Antonio Ubaldo Rattin, difensore insuperabile, l’idolo della cancha, con Silvio Marzolini, terzino sinistro di grande classe, figlio di un carpentiere udinese. Una storia bella e grande fino alla rivalità tra il Boca di Angelillo, il ballerino del gol che venne all’Inter per 90 milioni di lire nel 1957, e il River di Sivori, il cabezon inimitabile, il sinistro più fantastico e maligno della storia del calcio, che si trasferì nello stesso anno alla Juventus. Tu, Dieguito, non eri ancora nato.
Il problema è che il River ha i soldi e il Boca neanche un pesos. Ma tu vuoi il Boca. Trenta ore di trattative ti portano alla squadra amata. L’Argentinos ti trasferisce in prestito, dal 20 febbraio 1981 al 30 giugno 1982, per 4 milioni di dollari (4 miliardi di lire) più una vagonata di giocatori che erano rappresentati, guarda tu le coincidenze della vita, da Guillermo Coppola. Firmi il contratto davanti alle telecamere di Canal 13 col presidente del Boca Martin Benito Noel. E’ un contratto di quattro pagine con cavilli e corollari. Il Boca si dissangua. S’impegna anche ad assumersi il debito di 400 milioni di lire che l’Argentinos ha con la Federcalcio argentina. Il tuo ingaggio è pari a 600 milioni di lire, più 720 milioni di stipendi per due anni, premi per 250 milioni e 600 milioni di premio per le amichevoli. Nasce La “Maradona Producciones” con Jorge Cyterszpiller. La Toyota propone un miliardo e 200 milioni di lire per potere accoppiare la tua foto all’ultimo modello delle sue auto.
Il Boca si dissangua. Tu gli dai il tuo cuore e il sinistro d’incantesimo. Vedremo come andrà.

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GULLIT:"Quando vedo Messi penso che è un grande calciatore ma è protetto: dagli arbitri, dalle telecamere, dal regolamento. Messi può limitarsi a dribblare. Diego doveva saltare alto così, non per fare dribbling ma perché volevano spezzargli le gambe".


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PROSSIMAMENTE LE PROSSIME PUNTATE.

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GULLIT:"Quando vedo Messi penso che è un grande calciatore ma è protetto: dagli arbitri, dalle telecamere, dal regolamento. Messi può limitarsi a dribblare. Diego doveva saltare alto così, non per fare dribbling ma perché volevano spezzargli le gambe".


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quando hai tempo continua! sono interessanti.


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