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Balotelli, Hegel, e il merlo biancoagosto 6, 2014 · di crampisportivi · in Pallone, Sport. ·
["Balotelli" è un interessante, innovativo studio di Giampaolo Sarti sull'attaccante del Milan e della nazionale. Il lungo saggio, in uscita per Quodlibet (collana Le Forme dell'Anima), utilizza concetti e strumenti attinti da psicologia e filosofia per gettare uno sguardo inedito a una materia altrimenti già trita. Presentiamo alcune pagine tratte dal primo capitolo.]«Sentimento di solitudine, fin dall’infanzia. Nonostante la famiglia, e soprattutto in mezzo ai compagni, sentimento d’un destino eternamente solitario.» Sin dalla più giovane età, Mario Balotelli pensa al proprio isolamento come un destino. Non si limita cioè a sopportarlo passivamente, formulando il voto che sia temporaneo: vi si precipita anzi con rabbia, vi si rinchiude, e, dal momento che ve lo hanno condannato, vuole almeno che la condanna sia definitiva. Ci troviamo qui di fronte alla scelta originaria che Balotelli ha fatto di sé, a quell’impegno assoluto con cui ognuno di noi decide, in una determinata situazione, di ciò che sarà e di ciò che è. Abbandonato, respinto, Balotelli ha voluto appropriarsi questo isolamento. Ha rivendicato la sua solitudine affinché essa gli venisse almeno da lui stesso, per non aver da subirla. Ha dimostrato, attraverso la brusca rivelazione della sua esistenza individuale, di essere un altro; ma in pari tempo ha affermato e fatto suo questo essere un altro, nell’umiliazione, nel rancore e nell’orgoglio. Ormai, con un furore caparbio e desolato, si è fatto un altro: diverso da sua madre, con la quale era tutt’uno e che l’ha allontanato da sé, diverso dai suoi compagni spensierati e grossolani; si sente e vuol sentirsi unico fino all’estremo godimento solitario, unico fino al terrore.
Ma codesta esperienza dell’abbandono e della separazione non ha come compenso positivo la scoperta di una qualche specialissima virtù atta a sollevarlo immediatamente sulla turba. Il merlo bianco, dileggiato da tutti i merli neri, può se non altro consolarsi contemplando in tralice il candore delle sue ali. Gli uomini non sono mai dei merli bianchi. Ciò che abita in questo fanciullo abbandonato è il sentimento di una individualità meramente formale: neppure questa esperienza saprebbe farlo distinguere dagli altri. Ognuno ha potuto osservare nella propria infanzia l’apparizione fortuita e sconcertante della coscienza di sé. […]
Questa intuizione folgorante è perfettamente vuota: il fanciullo si è appena fatto la convinzione di non essere uno qualunque, che diventa precisamente uno qualunque nell’atto di acquistar tale convinzione. È distinto dagli altri, questo è certo; ma anche ognuno degli altri è del pari distinto da lui e da tutti. Ha fatto la prova puramente negativa della separazione e la sua esperienza si è fissata sulla forma universale della soggettività, forma sterile che Hegel definisce con l’eguaglianza Io = Io. Che farsene d’una scoperta che impaura e non ripaga? Quasi tutti si affrettano a dimenticarla. Ma il fanciullo che ha incontrato se stesso nella disperazione, nel furore e nella gelosia, polarizzerà tutta la sua vita sulla meditazione stagnante della sua individualità formale.
«Voi mi avete scacciato – dirà – mi avete respinto fuori da quel tutto perfetto in cui mi perdevo, mi avete condannato all’esistenza separata. Ebbene! questa esistenza, ora io la rivendico contro di voi. Se più tardi voleste attirarmi a voi e di nuovo assorbirmi, questo non sarebbe più possibile perché ho preso coscienza di me stesso verso e contro tutti…» E, a coloro che lo perseguitano, ai compagni di collegio, alle canaglie che incontra sul suo cammino: «Io sono un altro. Distinto da voi tutti che mi fate soffrire. Voi potete perseguitarmi nella mia carne, non nel mio “essere un altro”…» Parole che sanno di rivendicazione e di sfida. Un altro: fuori tiro, perché sta a sé, già quasi vendicato. Si preferisce a tutto perché tutto lo abbandona. Ma questa preferenza (atto per prima cosa difensivo) è anche, da un certo punto di vista, una ascesi, perché mette il fanciullo di fronte alla pura coscienza di se stesso. Scelta eroica e vendicativa dell’astratto, disperato spogliarsi d’ogni bene, rinuncia e affermazione ad un tempo, porta un nome: è l’orgoglio. L’orgoglio stoico, l’orgoglio metafisico non alimentato da privilegi sociali né da una felice riuscita né da alcuna superiorità riconosciuta, da nulla insomma che sia di questo mondo, ma che vuol darsi come avvenimento assoluto, come elezione a priori senza causa, e si colloca ben più su del terreno dove gli smacchi potrebbero abbatterlo o il successo sostenerlo.
Orgoglio tanto misero quanto puro, perché gira a vuoto e si nutre di se medesimo: sempre inappagato, sempre esasperato, si esaurisce nell’atto stesso in cui si afferma; non poggia su nulla, è campato in aria, dal momento che la diversità su cui si basa è una forma vuota e universale. Checché ne sia, della sua diversità il fanciullo voleva godere; voleva sentirsi differente da suo fratello, differente da suo padre: sogna di un’unicità da impadronirsene con la vista e col tatto, da colmarsene così come un suono puro riempie l’orecchio. La sua mera diversità formale gli sembra il simbolo di una singolarità più profonda, che faccia tutt’uno con ciò ch’egli è. Si curva su se stesso, tenta di sorprendere la propria immagine in quel fiume grigio e calmo che scorre a velocità sempre uguale, spia i propri desideri e le proprie collere per sorprendere quel fondo segreto che è la sua natura. E mercé codesta attenzione, senza tregua rivolta al fluire dei suoi umori, comincia a diventare per noi Mario Balotelli.
ERRATA CORRIGE: Ci accorgiamo solo ora che il pezzo è in realtà un estratto dal saggio “Baudelaire” di Jean-Paul Sartre, nel quale il nome del poeta francese è stato però sostituito con quello dell’attaccante milanista.
Articolo di Fortunato Insolenza